FESTIVAL DI ROMA 2014 – Time Out of Mind, di Oren Moverman (Cinema d'Oggi)

Questa volta Moverman non ci convince. L’insistita estetizzazione di ogni movimento, l’ossessione per la “bella inquadratura” e per la “giusta composizione” (questi sono i danni di Steve McQueen diceva qualcuno all’uscita dal film…) restituiscono un dolente caos depressivo incredibilmente trattenuto e pre-ordinato

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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Mette un po’ in crisi questo Time Out of Mind. Perché quello di Moverman è da sempre (e si conferma) un cinema dei sentimenti più intimi e trattenuti, delle odissee private condivise con gli spettatori. Bel film Rampant, ottimo film Oltre le regole. E allora quest’ultimo progetto (ancora scritto e diretto) poteva essere veramente il culmine di un percorso registico: un homeless, un senza tetto, la sua perdita nella “distante” e bellissima New York contemporanea, l’incomunicabilità classica riconfigurata in tempi di esperienze simulacriali…poi un passato personale che balena a tratti e si ri-cela subito perché troppo doloroso, infine il rapporto appena abbozzato con una figlia che proprio non ne vuole sapere di un padre che “ha fatto troppe cazzate nella vita”. Il volto sfatto (ma non troppo, forse, per risultare veramente credibile…) di Richard Gere domina letteralmete il film: i suoi primi piani, la scelta insistita di ritagliarlo dal contesto con teleobiettivi che schiacciano New York in un lontano eco fuori-fuoco, il continuo pedinamento che vuole e deve essere emotivamente partecipe, infine i rumori della città percepiti e restituiti come un coacervo di voci nella sua/nostra distanza disperata. Il corpo di Gere è sempre catturato dall’occhio della città e dai mille vetri e vetrine che la colorano, disegnando uno spazio mentale alternativo (il titolo del film è sin troppo palese) e con ambizioni vansantiane nella gestione del tempo (dilatato, intimo, sempre altro rispetto al mondo). 

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Un film che ci mette in crisi, però, si diceva. Perché Moverman vuole chiaramente echeggiare classici settanteschi aggiornati ai tempi del post 11 settembre, strizzando l’occhio a registi come Jerry Schatzberg ma non riuscendo proprio mai ad avvicinarsi – e spiace molto dirlo – a quel vorticoso cinema/esperienza che era Panico a Needle Park o Lo spaventapasseri. L’insistita estetizzazione di ogni movimento, l’ossessione per la “bella inquadratura” e per la “giusta composizione” (questi sono i danni di Steve McQueen diceva qualcuno all’uscita dal film…) restituiscono un dolente caos depressivo incredibilmente trattenuto e pre-ordinato. Effetto tristemente anestetizzante. Anche il sottile e commovente discorso tutto metacinematografico sullo statuto iconico di un grande divo del passato come Richard Gere rimane appena abbozzato, troppo nascosto, non raggiungendo quasi mai l'all is lost. E allora non possono non venire in mente i film americani di Amir Naderi (A,B,C Manhattan o il monumentale lavoro sul sonoro di Sound Barrier) per trovare inquadrature che forzino le regole del cinema e restituiscano un'esperienza di perdita nella New York che soffoca, in quell’abisso tutto interiore riflesso nella strada. Ecco: Moverman questa volta non va mai oltre le regole, la sua testarda sincerità rimane cofinata solo nelle intenzioni e/o nei suoi alti referenti. Time Out of Mind è un film onesto, ambizioso, anacronistico e sanamente fuori dal tempo, ma che purtroppo fallisce l’unico obiettivo che dichiaratamente si pone: farci condividere l’esperienza di una persona.

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