Pesaro60. Sentieri Selvaggi intervista Enzo D’Alò

“Bisogna lasciare i bambini liberi di sognare”. Un ricco dialogo in esclusiva con Enzo D’Alò, maestro dell’animazione italiana, in occasione della 60ª Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro

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In occasione della 60ª Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro abbiamo incontrato Enzo D’Alò, maestro del cinema d’animazione ben oltre i confini italiani. Opere come La freccia azzurra, La gabbianella e il gatto e Mary e lo spirito di mezzanotte, presentato alla Berlinale del 2023 nella sezione Kplus, non si lasciano addomesticare al semplice statuto di film per bambini, una categoria che non coglie la profondità di queste storie, spesso tratte da importantissimi scrittori, e che rivela una bassa considerazione dei bambini stessi. La conversazione che ne è scaturita ha toccato argomenti molto diversi, dallo stato dell’animazione in Italia al rapporto di Enzo D’Alò con la tecnologia, fino alla necessità di trasgredire l’esperienza e di contaminarsi e confrontarsi con culture diverse…

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Un anno fa, hai dichiarato che con l’animazione sembra sempre di ricominciare tutto da zero. Guardando a come viene trattato il settore, sembra che la sua osservazione si sia avverata.

Purtroppo, abbiamo dei bandi europei e italiani che sono sempre più penalizzanti, forse per scarsa conoscenza del settore. Hanno dei limiti di tempo stringenti, aggirabili tramite proroghe, che comunque sono un meccanismo oscuro. Se arrivassi a tre quarti di film e la proroga mi venisse negata, restituisco i soldi? Il limite in generale è a 24 mesi (a volte anche 18) dall’assegnazione del bando. Un film d’animazione non si realizza in così poco tempo. Non si considerano che spesso un film d’animazione, che di solito ha un budget di 8/10 milioni, si fa spesso in co-produzione e non è che se si ottengono i soldi di una film commission regionale, allora si parte a fare il film. Anche perché in genere sono bandi che assegnano tra i 200 e i 500 mila euro e c’è bisogno di altro tempo per completare il budget. Oltretutto non è che tutti i bandi partono e danno i soldi lo stesso giorno. Quindi sarebbe più corretto istituire il limite a partire dalla data di inizio realizzazione del film, che comunque sarebbero pochi per un’opera d’animazione. Poi è vero, in Italia non viene considerata, nemmeno dall’intellighenzia del cinema. Sono rimasto molto male del fatto che Mary e lo spirito di mezzanotte non è stato nemmeno selezionato per farlo vedere ai giurati del David Giovani, nemmeno avessimo 50 film d’animazione all’anno che escono in Italia. Non sono nemmeno riuscito a capire chi abbia fatto la selezione. Tutto molto oscuro.

Spesso si considera l’animazione anzitutto come prodotto e poi per bambini…

Anche la considerazione del bambino è molto bassa, come se fossero scemi. Sono degli esseri senzienti e spesso lo sono più degli adulti, che di solito sono più condizionati. Al festival di El Gouna, dove Mary e lo spirito di mezzanotte ha vinto la Stella d’Argento, nella motivazione la giuria ha detto di aver deciso di vedere il film dopo una presentazione con una scuola, sconvolti dalle domande e dall’interesse di una scolaresca che aveva visto il film. Nel film ci sono diversi messaggi, ma tutti si focalizzano sulla perdita, che è la parte finale. In fondo, ci sono due importanti linee in Mary e lo spirito di mezzanotte: il rapporto tra la nipote e la nonna, che ha perso le responsabilità e si diverte con la piccola e allo stesso tempo le tramanda una tradizione, e poi l’importanza di lasciare sognare i bambini. È importante: alla loro età hanno delle possibilità che più avanti non potranno più mettere alla prova. L’utopia è molto importante come fase di crescita. Però in Italia ci sono dei tabù, come quello di non pronunciare la parola cancro, che sono dei segni di arretratezza e che spero che il film aiuti a combattere.

Rodari, Sepùlveda, Ende, Collodi, ora Doyle… Hai quasi sempre creato film a partire da un’opera letteraria, attraverso un processo lungo di adattamento.

Alla fine, è pur sempre scrivere una sceneggiatura, non è più facile né più difficile. Quando si fa questo passaggio hai bisogno di sviluppare un arco narrativo, di trovare motivazioni che nel libro non ci sono e che è giusto che non ci siano. I bellissimi libri hanno bisogno di essere modificati per diventare bellissimi film. Prendiamo a esempio La Gabbianella e il Gatto, dove abbiamo risolto diversi problemi insieme allo stesso Sepùlveda. Nel libro c’è una scimmia che gestisce il bazar nel porto il cui ruolo è solo quello di punzecchiare e caricare la reazione della gabbianella. Questo nel film non avrebbe funzionato. Quindi inserimmo il gatto Pallino, che diventa geloso come un bambino con la sorellina appena nata e la provoca, fino a dirle che la vogliono mangiare. Come detto prima, però, non è cattivo e per questo è il primo ad andare a salvare la gabbianella. Un gesto che lo redime. Gli stessi topi sono relegati solamente a un capitolo del libro e il gatto Zorba fa perfino un compromesso storico con loro. Nel romanzo da cui proviene Mary e lo spirito della mezzanotte non c’è la linea relativa alla cucina. L’abbiamo aggiunta noi.

Quand’è che un libro ti colpisce a tal punto da volerlo trasporre?

È una condivisione di valori soprattutto, quando mi ci ritrovo, quando mi viene in mente che vorrei averlo scritto io. La lettura è un processo importante, è una regia individuale e interiore, è la tua testa che ti fa immaginare il tutto. Quando leggo immagino. Non compro mai un libro solamente perché voglio trasporlo, lo prendo per leggerlo. Poi mi chiedo se possa diventare un buon film. Ho avuto la fortuna di ottenere sempre i diritti di opere profonde, di autori che non sono per bambini, tornando al discorso di prima. Che vuol dire scrittura per bambini? A 9 anni ho letto Il signore degli anelli: non mangiavo e non dormivo per finirlo e quello non si può dire proprio che sia per bambini. Quando sento che mi commuovo, che mi rivedo nei valori dell’autore, allora comincio a pensare se possa essere un bel film d’animazione. Ma non è detto: Mary e lo spirito di mezzanotte avrebbe potuto essere anche un bel film dal vivo.

Infatti, è un film con molte situazioni molto quotidiane e attuali. Mi ha colpito molto, per esempio, la scena in cui Mary parla con la sua amica tramite il pc, in videochiamata. Da questo punto di vista qual è il tuo rapporto con la tecnologia?

Il digitale è stata una scelta obbligata. Ogni film risparmiamo un certo numero di alberi. Pensa a 100/150 mila disegni per fare un film, più tutto il materiale preparatorio. Diventava, nel momento in cui lavoravamo in co-produzione, difficile anche a livello logistico, spedire scatoloni e scatoloni di disegni, che se andavano perduti (come ci è successo purtroppo) se ne andavano due o tre mesi di lavoro di un’intera squadra. In più il digitale ci dà molte più possibilità. Con gli acetati, sopra al quarto livello si opacizzava tutto. La Disney aveva escogitato un metodo, con una luminanza diversa a seconda del livello in cui si trovava il colore. Un metodo però troppo costoso per noi. In Momo e lo spirito del tempo, in alcune scene c’erano 400 livelli. Qualcosa ovviamente si perde: riprodurre il segno della matita è impossibile per ora. Da un punto di vista economico, invece, non ci sono differenze alla fine dei conti.

L’intelligenza artificiale ti affascina? La trovi una via percorribile per l’animazione?

Parto dal presupposto che si tratta di un utensile, quindi ci deve essere sempre dietro la nostra testa. Se ci permette di accelerare e di migliorare delle fasi di lavoro, perché privarcene a priori. Certo, fa un po’ paura. Tra dieci anni rischiamo di perdere tante maestranze importanti, come gli attori. Questo non solo non è giusto, ma non è creativamente interessante, perché sostituiamo la fantasia dei singoli con una macchina. L’intelligenza artificiale si basa sull’esperienza pregressa, ma la creatività nasce anche dalla trasgressione dell’esperienza. Quando lavoro, lo faccio con altre 300 persone che arricchiscono il tutto e si diventa quasi una famiglia, visto che si sta insieme per molto tempo. Non si deve perdere questo scontro di teste.

I tuoi film sono anche un incontro tra culture diverse. Il prossimo film sarà tratto da una fiaba africana.

Dobbiamo allargare le nostre esperienze con il confronto con altre culture. C’è una paura del diverso che da noi prende piede molto facilmente. Non stiamo parlando di qualcosa di recente. L’Africa mi interessa tantissimo, è un continente magico, pieno di tradizioni completamente diverse tra di loro e dalle nostre. Esplorarle è sempre interessante, soprattutto con l’aiuto Gaston Kaboré, regista del Burkina Faso e fondatore del FESPACO (Festival Panafricain du Cinéma de Ouagadougou). Non avevo mai visto l’Irlanda prima di iniziare a lavorare a Mary e lo spirito di mezzanotte e abbiamo vissuto lì. La scuola di cucina è tratta da un vero edificio lì, abbiamo girato Wexford, abbiamo girato le vecchie case irlandesi. Quando l’autore del romanzo ha visto il film si è sorpreso, perché non mi aveva mai parlato di casa di sua nonna, ma era uguale. Questo perché partiamo da situazioni nelle quali ci si può riconoscere in maniera universale. Ho presentato il film a Shanghai e i bambini cinesi mi hanno fatto le stesse domande dei bambini italiani. Il cinema d’animazione è universale e ha un vantaggio rispetto al resto, ossia è più facilmente esportabile e comprensibile. Tutto diventa disegnato e sintetico.

In Mary e lo spirito di mezzanotte c’è anche un incontro-scontro tra un mondo magico e un mondo materialista, il bosco e l’ospedale.

Quando abbiamo visto il parco con tutti gli alberi contorti, che esiste davvero, abbiamo riempito pacchi di disegni. Era il luogo, capace di collegare la spiritualità alla materia. Quando Mary l’attraversa c’è sempre questo vento, che dà la sensazione che ci sia qualcosa che sta per accadere, fino alla fine del film. Mi piace far riflettere le persone, non voglio dare risposte, anche perché nessuno potrebbe. Sia la canzone dei titoli, sia le immagini del film riportano una domanda: finiamo veramente del tutto quando il viaggio della vita termina o c’è altro? Se c’è altro, dipende da una reincarnazione o semplicemente da un ricordo che lasci e che pervade chi ti è stato vicino? Ecco, penso che questo sia un concetto nel quale possano ritrovarsi sia i religiosi sia gli atei più convinti. Credo che le persone debbano imparare a non staccare il cervello quando vanno al cinema, ma utilizzarlo per pensare. Il cinema dovrebbe farti agitare. I finali sono importanti perché non devi dare una risposta, ma lasciare lo spazio per pensare.

Nel film utilizzi una musica tradizionale, ma anche contaminazioni pop.

Sì, in questo caso abbiamo lavorato con David Rhodes (chitarrista di Peter Gabriel, ndr), ormai un amico e con cui avevo lavorato per La gabbianella e il gatto. Ha letto la sceneggiatura tre anni prima della realizzazione del film e ha cominciato a lavorare sulle musiche, mandando delle proposte. Gli ho chiesto di partire dalla struttura musicale irlandese, lavorando con strumenti tradizionali, ma poi c’è anche la sua chitarra e il suo modo di interpretare la musica. Non è mai una musica che serve a tappare i silenzi, che quando servono sono molto importanti. Nella scena della stazione di servizio, un dialogo molto importante e intenso, con i rumori dell’ambienti. A poco a poco, la musica entra e libera tutti i suoni. È un lavoro che comunque dura anni. Ci sono molti momenti nel film in cui ci si guarda e basta, dove sono importanti le espressioni del viso. Questo non si fa molto spesso, perché i muscoli del viso sono milioni. A volte bisogna fare tutto con gli occhi. Ci sono anche molte frasi che non finiscono, interrotte. Nessuno dice mai interamente ciò che pensa. Nell’animazione non si fa spesso.

Come vedi il futuro dell’animazione? Film come Spiderman: Across the Spiderverse affrontano la quotidianità in una maniera inedita, coniugando pop e sperimentale.

Sono due film che mi sono piaciuti moltissimo. Mi sento molto ispirato dall’animazione giapponese, non solo da Miyazaki. Penso a Isao Takahata. I miei vicini Yamada ti dà l’esempio di come ci si possa immedesimare con dei personaggi provenienti da culture diversissime. Walt Disney diceva che se c’è una mucca che vola per tutto il film, dopo due minuti ti sei già stufato. Se c’è, però, una mucca che bruca l’erba, come tutte le mucche di questo mondo e a un certo punto inizia a volare, è lì che nasce la magia dell’animazione. Bisogna costruire situazioni reali dalle quali l’animazione ci eleva. Credo nel futuro dell’animazione 2D. Credo che abbia delle possibilità manipolative dell’immagine che la 3D difficilmente ti dà. Nel 3D ci sono dei limiti che difficilmente sono superabili con i budget che abbiamo in Europa. Ha dei limiti di magia, perché molto ancorata al realismo e non ti permette questi voli. Ci vorrebbe, comunque, un’educazione al cinema per i ragazzi. Trent’anni fa sembrava se ne parlasse seriamente, ma ora credo si sia fatto un passo indietro. Non serve solamente proiettare film, bisogna proporre delle analisi, portare bambini e ragazzi al cinema.

Da una parte spesso si confonde educazione all’immagine con l’educazione attraverso l’immagine. Si propongono film con tematiche legate alla didattica, ma non si coltiva uno sguardo. Oltretutto il cinema viene spesso romanticizzato.

Jimmy Murakami mi raccontò che nella sua agenzia pubblicitaria venne un cliente che voleva uno spot d’animazione. Si misero d’accordo sulla cifra e sulle modalità e si salutarono. Il cliente, però, si mise ad aspettare fuori dal suo ufficio. Stava aspettando che gli desse lo spot pronto (ride, ndr). Siamo tutti dei costruttori di immagini. Il regista è solo la testa che dirige, ma è una creatività collettiva e se c’è un tassello sbagliato si vede. Se non ci emozioniamo noi in quel facciamo, non si emozionerà nemmeno il pubblico.

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