#Venezia76 – Les épouvantails, di Nouri Bouzid
Un urlo straziante, un altro spaccato forte e disperato della Tunisia post-rivoluzione in un cinema dove l’urgenza umana è ancora prevalente. Potentissimo e ancora profondamente necessario. Sconfini
Ci sono le grida. Forti, disperate, che sembrano frantumare ogni spazio chiuso. Una Tunisia avvolta nel buio quella di Bouzid. Nel periodo del regime islamico dopo l’ultima Rivoluzione del 2010-2011, quella dei Gelsomini. Les épouvantails è ambientato nel 2013. Zina e Djo, due ragazze ventenni, tornano nel proprio paese dalla Siria dove sono state sequestrate e stuprate. La prima è stata separata dal suo bambino di due mesi. L’altra invece si è chiusa in un mutismo dopo aver saputo di essere incinta. Ad assisterle ci sono Dora, volontaria di un’associazione umanitaria e Nadia, un avvocato che si occupa anche di Driss, un ventunenne omosessuale perseguitato e bandito da tutte le istituzioni scolastiche.
Ancora un prima linea il cinema di Bouzid. Zina e Djo potrebbero essere la provvisoria reincarnazione post-rivoluzione delle due cugine Zaineb e Aïcha, le protagoniste del penultimo film del regista, Millefeuille, realizzato nel 2012. Del resto l’opera del cineasta è ancora potentissimo e profondamente necessario nel mostrare la condizione femminile. Lo aveva fatto anche nel bellissimo Bent Familia, portato proprio qui al Festival di Venezia nel 1997, nella sezione “Mezzogiorno”. E all’inizio infatti non si intravede neanche una figura maschile. E quando appaiono, vengono filmati quasi come una sorta di creature trasparenti omologate. Fatta eccezione per il giovane omosessuale Driss, al centro di uno dei momenti più intensi e liberatori del film: quello in cui sorridono e giocano sotto un telo con Zina. Con l’illusione di un lirismo sottolineato dalla musica al piano. Quasi una scena chiusa che frantuma tutti i muri del film insieme: quelli della discriminazione sessuale, religiosa e politica. Sì perché il cinema del regista tunisino è ancora attualissimo nel mostrare uno spaccato del proprio paese. Non solo. Il modo in cui sa filmare l’oppressione claustrofobica, la violenza, ha qualcosa insieme di fisico e disperato. L’inizio con le due protagoniste imprigionate, che grattano per terra. Oppure anche il rifiuto nel vedere la luce dopo un trauma. Proprio quello che è successo a Djo. Con tutti i flash della violenza subita. Il vuoto abissale del presente. Che arrivano quasi dalla memoria dello stesso Bouzid. Che all’inizio degli anni ’70 è stato in carcere per cinque anni per le sue convinzioni politiche. E qualche anno fa era stato definito da alcuni quotidiani arabi come “nemico dell’Islam”. La rabbia repressa di Djo e Zina poi diventa ancora un urlo. Fortissimo come questo film. Dal suo primo lungometraggio, L’homme de cendres del 1986, che è stato presentato a Cannes a Un certain regard, non è cambiato nulla. Come i due protagonisti di quel film, c’è un trauma del passato mai superato che impedisce di vivere il presente. Ancora un segno, indelebile, dell’anima sporca della Tunisia.