37 Bolzano Film Festival Bozen – Incontro con Takumã Kuikuro

Il regista, tra i protagonisti del focus sul Nuovo Cinema Indigeno brasiliano, ci ha parlato del suo cinema con cui racconta la sua gente, tra tradizioni secolari e il forte legame con la natura

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Tra le sezioni più interessanti dell’ultima edizione del Bolzano Film Festival Bozen, una menzione d’onore la merita sicuramente la rassegna sul cinema indigeno brasiliano. Spazio dedicato ad una filmografia emergente, viva e assolutamente priva del filtro visivo della cultura colonialista. La parola e l’eloquenza delle immagini di queste popolazioni storiche, trasformate in minoranze etniche e linguistiche dalla storia, vengono così restituite ad un popolo marginalizzato e oppresso per secoli dalla colonizzazione europea. Poter osservare da un punto di vista inedito lo scorrere della vita, è anche un’opportunità di riflessione per noi occidentali sul rapporto collettivo e individuale di queste comunità con la cultura predominante e con l’avvento della modernità. Un cinema originale che conserva la memoria e la cultura di antichissime popolazioni indigene, all’interno della foresta Amazzonica. Popolazioni costrette per anni a subire violenze e discriminazioni da parte della brutale potenza colonizzatrice.

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Abbiamo incontrato Takumã Kuikuro, uno dei principali fautori del cinema indigeno brasiliano. Il legame con il suo popolo è presente già dal suo “cognome”. Il termine Kuikuro, infatti, è il nome della sua comunità, situata nel pieno della foresta amazzonica, più precisamente nella regione del Mato Grosso, attualmente all’interno dello Stato brasiliano. Tutti i figli di questa terra adottano lo stesso nominativo “Kuikuro”. In questo senso, il cineasta ci tiene molto a presentare e a raccontare la sua gente, cercando di ribadire più volte l’identificazione che la sua gente sente con la terra che che li ospita.

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“Sono molto felice di essere qui. Oggi ho la possibilità di viaggiare e di visitare il mondo. I miei genitori non hanno avuto questa occasione. Loro non conoscevano la città e la modernità. Mi rende molto orgoglioso poter rappresentare qui il mio popolo, la mia terra. Per noi “casa” è la nostra terra, siamo un tutt’uno. Io sono cresciuto a contatto con la natura, pescando e nuotando tra i torrenti e fiumi affluenti del Rio delle Amazzoni. La mia comunità vive in simbiosi con la natura. Mangiamo i frutti del nostro orto, le nostre case rappresentano la vita della natura. Se non ci fosse lo spirito della natura, della foresta, degli animali, noi non esisteremmo.”

Tutte le usanze, i riti, le azioni quotidiane di questo popolo sono dedicate al mantenimento del rapporto ancestrale tra uomini e terra. Nei giorni precedenti all’incontro abbiamo potuto assistere alla proiezione di alcune sue pellicole: As Hiper Mulheres e A Febre Da Mata. Due opere, il primo un film collettivo, il secondo un cortometraggio, che mettono in risalto l’aspetto di estrema connessione dei Kuikuro con l’ambiente che li circonda. Da una parte, con As Hiper Mulheres, il regista ripristina il racconto di un’usanza declinata al femminile e il relativo processo di passaggio di testimone di generazione in generazione. Dall’altra, con A Febre Da Mata, il vero protagonista del racconto è il rapporto ancestrale tra comunità indigena, flora e fauna. Un rapporto di amore e rispetto reciproco che, di colpo, viene spazzato via dalla devastazione della deforestazione messa in atto dall’uomo bianco.

“Con gli anni abbiamo imparato a conoscere la colonizzazione dell’uomo bianco, l’accesso alla modernità, i suoi comfort, la tecnologia. Abbiamo imparato la cultura non indigena, soprattutto quella evangelica. E molte volte l’uomo bianco ha tentato di approfittarsi della nostra disponibilità, cercando di evangelizzarci ma noi continuiamo a lottare per conservare la nostra identità. Teniamo la religione dei bianchi fuori dalle nostre terre. Abbiamo lottato per la nostra terra che per noi come un’isola felice. Ci prendiamo cura della foresta, adottiamo delle tecniche per salvarla dalla devastazione voluta dall’uomo bianco. La deforestazione è una pratica che si è acuita con il governo Bolsonaro che ha cercato di durante il covid di toglierci col fuoco e con i medicinali occidentali la nostra terra e le nostre anime. Alcuni di noi, che si sono curati con i medicinali voluti da Bolsonaro, sono morti. Allora ci siamo stretti ancora di più intorno alla nostra comunità, abbiamo impedito i contatti con il mondo esterno e ci siamo curati con la medicina della nostra tradizione. Siamo sopravvissuti e ora io sono qui a raccontarvi della mia gente.”

L’urgenza del racconto, il grido di aiuto di un popolo che ha vissuto per anni in un territorio pressoché incontaminato e che negli ultimi due secoli ha dovuto lottare per la propria libertà, si incontrano le immagini di un cinema la cui forma si libera da una dimensione temporale canonica, abbracciando in pieno il flusso della vita. Alla nostra domanda sulla percezione di spazio, tempo, vita e morte il regista ci risponde in maniera molto diretta.

“Per quanto riguarda la nostra percezione del tempo, credo che il nostro grande vantaggio sia legato al fatto che non ne siamo schiavi, soprattutto da un punto di vista economico. Non abbiamo dei superiori, non lavoriamo per nessuno, per questo motivo non abbiamo neanche orari lavorativi. Lavoriamo quando vogliamo solo ed esclusivamente per mantenere le nostre famiglie. Ogni famiglia ha una funzione diversa dalle altre e quando a qualcuna manca qualcosa, le altre la aiutano come possono. Non esiste il commercio, non c’è vendita e non c’è spreco. Non esistono i soldi che sarebbero la fine dello spirito di comunità e di famiglia.

Sulla morte, io personalmente non ho paura. Mi sento anche un po’ incosciente da questo punto di vista… nella nostra cultura, invece, la morte è assolutamente nell’ordine naturale delle cose. E voi? Avete paura della morte?”

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