#FESCAAAL29 – La camarista, di Lila Avilés

Gli spazi, luminosi o scuri, ristretti o ariosi, colorati o monocromi, diventano un organismo autosufficiente dove dare forma ad un lungo, silenzioso e meditato percorso di formazione. In concorso

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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Lila Avilés è una giovane regista messicana che coltiva, insieme alla passione del cinema, quella del teatro. La camarista (La cameriera ai piani) è in origine un progetto teatrale, ma la sua autrice sa spogliarlo dalle fissità del palcoscenico per trasformare la storia della sua protagonista in un film che è anche un lungo, silenzioso e meditato percorso di formazione, dove si infrangono i sogni, si sopiscono le intemperanze e dove, ancora, coltivando segrete ambizioni, si aspira, comunque, ad una vita migliore.
È questo il mondo di Eveline, giovane cameriera ai piani di un lussuoso albergo di Città del Messico. Lavare, pulire, lisciare le lenzuola e le federe, in altre parole lavorare sodo per mantenere un figlio che il lavoro gli impedisce di vedere. Ma il sogno di Eveline è quello di essere destinata al 42° piano nella suite executive. Simbolo, anche per lei di riscatto. I tempi non sono ancora maturi. Eveline dovrà lavorare ancora tanto.
Di personaggi, soprattutto femminili, destinati a misurarsi con le grandi intemperie della vita, ne abbiamo visti tanti e molti altri abbiamo visto con la sconfitta segnata sul volto a proseguire quel ciclo dei vinti che non avrà mai fine. Ma il piccolo fascino di La camarista non risiede tanto in questa ennesima storia di sconfitta, qui solo parziale, e non è del tutto attribuibile alla pur bravissima Gabriela Cartol che mette a disposizione del personaggio il suo corpo minuto e il suo volto ancora quasi fanciullesco, ma risiede proprio, questa volta, nell’uso del cinema come strumento narrativo, non di eventi, non di personaggi, ma di luoghi e di spazi dove gli eventi minimi e trascurabili avvengono e dove i personaggi si muovono. Non abbiamo e non possiamo avere confronti, poiché Lila Avilés è qui alla sua prima regia, ma la sua mano appare sicura e altrettanto chiare le sue idee. La camarista è soprattutto un film di spazi, luminosi o scuri, ristretti o ariosi, colorati o monocromi, gli spazi dell’albergo dentro i quali si riverberano i sentimenti di Eve, nei quali soprattutto, si fa evidente una sua inguaribile solitudine che nasce da tormenti inconfessati. La regista sa raccontare il silenzio, tra le mura ovattate della struttura, ma sa mettere in scena anche la rabbia, i sentimenti più forti, quelli estremi. È proprio servendosi degli ambienti che l’autrice porta a compimento il suo lavoro introspettivo. L’universo quasi autarchico

dell’albergo si adatta perfettamente alla sua ricerca e serve per racchiudere, in questa autosufficienza, il suo personaggio. Eveline sembra ingabbiata dentro l’albergo, quasi fosse una struttura organica, ma è anche vero che in quel mondo trova la sua dimensione, sfuggendo all’anonimato della immensa metropoli che osserva quasi spaventata dalle vetrate delle stanze. La camarista resta un film dimesso nel quale anche le forti emozioni sembrano trattenute e qualsiasi partecipazione emotiva resta controllata così come Eve controlla le proprie. Il lavoro di concentrazione narrativa, o meglio di riflessione sui sentimenti, Lila Avilés lo compie, grazie al suo personaggio, quando osserva i suoi comportamenti, quando spia i segreti, quando con semplicità, ma evidente conoscenza dei propri mezzi, riesce a raccontare le emozioni. È proprio avere trovato questa giusta misura il grande pregio del lavoro di scrittura, ma questa volta anche quello svolto sul set, un impegno che ha restituito a questo film il fascino discreto che lo accompagna. Il personaggio di Eve è tratteggiato con cura, la sua dedizione al lavoro, la sua disponibilità con le colleghe, la sua ambizione coltivata con un corso di aggiornamento e poi, i suoi desideri femminili, che sembrano trovare forma proprio nelle stanze vuote di ospiti incuranti delle presenze di chi dovrà rigovernare le camere. Simbolo di una differenza di classe, di un disagio che fa parte comunque della vita del personaggio. Un tema che scivola, anche questo silenzioso, ma che esiste, segnando, discretamente, anche i comportamenti della protagonista. Eve è timida e discreta, la macchia di sangue sul lenzuolo per una distrazione, durante il ciclo mestruale, destabilizza la sua ricerca di perfezione, quella stessa ricerca che trova nelle pagine di Il gabbiano Jonathan Livingston che assume a proprio vademecum esistenziale. Ma Eve è anche capace di rabbie improvvise e il suo antico antagonismo con il mondo, che appare sopito, ma quasi in agguato, è stemperato dalla ragione, dal bisogno e quindi razionalmente controllato, ma talvolta esce in tutta la sua naturale originarietà. Così, come altrettanto controllati sono i desideri e i sentimenti che vorrebbero esprimersi a pieno. Ma il loro tempo non è ancora arrivato. Anche i desideri sessuali devono soggiacere all’attesa, restare sopiti per dare spazio a questa lenta ascesa verso una aspirata perfezione. Ma la variabile non calcolata si fa sorpresa e il suo corpo, che sa essere desiderabile e sensuale, sarà offerto agli sguardi dell’operaio che pulisce i vetri del grande edificio sospeso nel vuoto e per lei quell’inatteso spazio intimo che improvvisamente le si apre, diventa consapevolezza di una femminilità quasi sconosciuta.
La sconfitta si fa cocente quando non le verrà assegnato il 42° piano. Il tema di un suicidio imminente è sospeso su quella terrazza dove Eve raduna le proprie forze chiamandole a raccolta in nome della propria salvezza.
Eve, tornerà a perdersi dietro le trasparenze di quelle stanze, di quei labirinti e negli spazi ora ampi e solari, ora stretti e oscuri del grande albergo, ma ora dovrà tornare nella vita vera che l’assorbe con i suoi rumori, la dove, confusa con le altre persone, saprà mettere a frutto l’aspirazione alla perfezione che le appartiene di diritto.

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