Shorta, di Anders Ølholm e Frederik Louis Hviid
Alla SIC un poliziesco di tensione estrema, dove il discorso politico passa attraverso le coordinate lucide del cinema americano di genere
“I can’t breathe”, “Non respiro”, dice Talib Ben Hassi agli sbirri che lo stanno schiacciando a terra. E, ovviamente, subito viene in mente l’uccisione di George Floyd, che sta incendiando l’America fuori e dentro la bolla. Ma, in verità, il riferimento di Shorta (un termine gergale arabo per indicare e ingiuriare la polizia) è a un caso accaduto in Danimarca decenni fa. La preveggenza è figlia della cattiva memoria, delle lezioni inutili della storia. Fatto sta che la vicenda del giovane Talib fa esplodere tutte le tensioni sociali e razziali della periferia di Svalegården, a Copenhagen. E a pagare tutto, a pagare caro, sono due agenti, Mike e Lens, che nel loro pattugliamento quotidiano si ritrovano proprio nella zona calda degli scontri. Vengono messi in mezzo, dopo il fermo di un ragazzo “innocente”, Amos, e devono salvare in qualche modo la pelle.
Due personaggi diversissimi, secondo la più classica tradizione del genere, lo sbirro cattivo e il poliziotto buono, il Robocop razzista e tutto “spirito di corpo” a dispetto di qualsiasi idea di giustizia, e l’agente in piena crisi di coscienza, preso nel dilemma di rispondere alla vocazione della sua missione. È su questo dualismo che si fonda la carica politica del film, che, ancor prima di tutte le questioni sociologiche, poggia su un nodo morale intricato. E nel giro della periferia, con la violenza che impenna, con le lingue e i colori che si mescolano, avverti l’eco di tanto cinema di periferia, soprattutto francese, quello più incazzato, da L’odio a Les misérables. Ma cité va cracker. Ma l’intuizione fondamentale di Ølholm e Hviid è di deviare dalla rotta più scontata. Innanzitutto sfumano le posizioni, proiettando i motivi dello scontro, pur evidenti, in una zomba d’ombra ambiguissima, in cui nessuno sembra salvarsi o dannarsi davvero. E, poi, filtrano il discorso politico attraverso le coordinate del cinema americano più lucido e immenso, quello che vive in fibrillazioni di fughe carpenteriane e risalite alla Walter Hill. Alla fine Shorta attinge tutta la sua energia rabbiosa da una tensione crescente. Seppure le coscienze si curvano, entrano in crisi e si contorcono, la narrazione corre dritta e si gonfia fino al punto di rottura e di esplosione, senza un momento di vera tregua. Si va avanti e ci si perde fino al baratro. Mentre la forma gioca sulla nostra impotenza a percepire le esatte traiettorie di ciò che accade, gli effettivi punti di fuoco da cui arrivano gli spari e il pericolo. Eppure, dicono Ølholm e Hviid, l’immagine sembra sempre arrivare prima, come quei video che passano tra i cellulari dei ragazzi di Svalegården e che segnalano, a ogni istante, la posizione del nemico. La rivolta nell’epoca incontrollabile della visibilità assoluta. La furia non è mai davvero cieca. E, forse, è la nostra fortuna.