#TFF41 – Holy Shoes: incontro con Luigi Di Capua

Il regista ci ha raccontato il suo esordio dietro la macchina da presa, tra consumismo e dittatura dell’oggetto. Presentato al festival fuori concorso.

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Holy Shoes, uno dei componenti dello storico gruppo comico The Pills, ha presentato il suo film, fuori concorso, al Torino Film Festival. Il lungometraggio è una lucida riflessione sul fenomeno del consumismo e sui suoi effetti sulla vita delle persone. Ieri pomeriggio abbiamo incontrato il regista per approfondire al meglio il suo punto di vista.

 

Come nasce questo tuo progetto?

Il progetto nasce con il desiderio di indagare il rapporto tra oggetti e esseri umani, il rapporto disfunzionale che noi abbiamo con gli oggetti in una società dove vige la tirannia del desiderio e una società iperconsumistica, all’interno della quale noi usiamo gli oggetti per definirci.
Il processo di analisi nasce step by step; una delle prime cose che mi ha colpito è stato l’incontro con un pusher di 27 anni con due figli a cui ho chiesto per quale motivo rischiasse la galera tutti i giorni. E lui mi ha risposto che la ragione per cui spacciava non era il sostentamento della famiglia ma il desiderio di comprare le Jimmy Choo per la moglie. Questa frase è stata un primo click a cui sono poi seguiti altri input e ho iniziato a chiedermi cosa fossero disposte a fare le persone per degli oggetti.

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Questa cosa colpisce chiunque, indipendentemente dalla classe sociale. Anzi solitamente meno si è abbienti e più si sente la necessità di comprare per poter mostrare. Questo rapporto come dicevo disfunzionale mi ha fatto innamorare di questo progetto. Non mi andava però di raccontare una sola categoria sociale, ecco perché ne ho scelte quattro che potessero mostrare mondi differenti.

 

Come sei arrivato all’oggetto scarpa e al modello della Typo 3 che è centrale nella narrazione?

Mi sono ispirato a un tipo di scarpa che si chiama Balenciaga Triple s, che è uscita circa 5 anni fa e costava circa 800 euro. Questo tipo di scarpe ha spopolato nelle grandi metropoli e i ragazzi impazzivano per un oggetto che costava metà dello stipendio dei genitori. Questo è stato un altro dei click di cui parlavo. Rispetto alla scelta dell’oggetto mi sento poi di dire che per me la scarpa è un oggetto sinuoso, che porta con sè anche un valore parossistico in quanto è il primo indumento necessario per uscire di casa; e noi intorno a questo strumento abbiamo costruito un valore a mio parere molto più grande di quello che dovrebbe avere.

 

Perché hai scelto proprio questa storia, che contiene sicuramente una riflessione anche politica?

Era una storia che sentivo particolarmente viscerale, che avevo tanta voglia di raccontare e che, mentre scrivevo, sentivo di non voler affidare a nessun altro. Non avevo altri progetti per cui sono andato da Agostino Saccà con la sceneggiatura già scritta e lui ha trovato qualcosa che lui stesso voleva raccontare da tanto tempo e che poteva ben restituire un’immagine della contemporaneità. Chiaramente c’è una forte componente politica, anche se non mi andava di scrivere un film prettamente rivolto a questo. Volevo che la storia fosse portata avanti attraverso le emozioni e gli archi narrativi dei personaggi, ma è chiaro che si tratta di un’analisi della società consumistica che ci rende schiavi, ma rispetto alla quale ancora non riusciamo a pensare a un’alternativa.

 

Dal momento che tu nasci dal web puoi raccontarci se da questa dimensione hai portato qualcosa dietro la macchina da presa?

Forse non dal web, ma sicuramente dalla comicità. La comicità per me è sempre analisi della società e questo me lo porterò sempre dietro. La cosa che mi piace fare di più, forse anche perché sono sempre insofferente proprio nei confronti della società, è questo modo di leggerne le criticità. In questo film chiaramente non si ride mai, ma la comicità resiste sotto forma di satira.

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