The Shrouds, di David Cronenberg

“Auto-biografico” e straziante, dove le uniche “vere” sensazioni a cui rimanere aggrappati sono i desideri per i corpi che amiamo. Prima del crash finale. CANNES 77. Concorso

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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Nel 2021, in piena pandemia mondiale, David Cronenberg mette in scena la sua morte in un cortometraggio intitolato The Death of David Cronenberg. Qui il regista entra nella sua camera da letto in accappatoio e si ritrova davanti al suo cadavere. La vista non lo traumatizza, anzi. Si stende accanto al suo corpo morto, lo abbraccia, sospirando in una forma di estasi. The Shrouds in qualche modo parte da qui. Da questa elaborazione della morte, da questo legame diretto con la carne che muore. Una carne non in putrefazione ma in qualche misura plastica, museale. Come le cere anatomiche a cui, circa un anno fa, Cronenberg collaborò insieme alla Fondazione Prada e a La Specola di Firenze. Un progetto quello che rilanciava le riflessioni sulla trasformazione del corpo, sulle sue dissezioni e sul rapporto tra scienza e scultura tipiche del cineasta canadese. Così abbiamo due indizi iniziali: la mostra Cere anatomiche e il cortometraggio The Death of David Cronenberg. E poi abbiamo gli ultimi due film diretti dal regista: Crimes of the Future e, appunto, The Shrouds. Se nel primo è la malattia e la sua cura chirurgica ad alimentare la società dello spettacolo, in The Shrouds è il lutto, la transizione dalla morte al suo superamento, insomma la post-mortem in diretta. Anche se in Shrouds questo guardare oltre la morte non assume i contorni del rito collettivo come nelle installazioni di Viggo Mortensen in Crimes, bensì è un atto intimo e individualista, una delle tante dipendenze tecnologiche e autistiche del mondo di oggi – che poi anche in questo ultimo film, quando siamo di preciso? come sempre in Cronenberg presente e futuro anteriore si confondono…

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Di certo non ci si confonde nel riconoscere nel protagonista di Shrouds un vero e proprio alter ego del regista. Tra il businessman Karsh (interpretato da Vincent Cassel) e Cronenberg si compie infatti un vero e proprio rispecchiamento fisico e teorico che si riconnette direttamente al grande trauma privato del cineasta: la morte, alcuni anni fa, della moglie Carolyn. Anche Karsh è infatti un vedovo. Ed è ossessionato dall’assenza della moglie e dall’essere ancora con lei (“il suo corpo per me era il mondo!” dice il protagonista) al punto da aver progettato un cimitero multimediale dove, attraverso degli schermi sulle lapidi e delle app, i familiari possono visualizzare il cadavere/scheletro del loro defunto. Ovviamente tra le lapidi di questo controverso GraveTech c’è anche quella di Becca (Diane Kruger), la moglie defunta di Karsh che allo stesso tempo continua ad apparirgli in sogno. Una notte un atto vandalico distrugge i sudari, tra cui quello di Becca. È un atto terroristico di ecologisti contrari alla filosofia di Karsh? Un complotto per acquisire la tecnologia del GraveTech e usarla per controllare le masse? E cosa sono quelle nuove protuberanze “vive” che a Karsh appaiono nelle immagini dello scheletro di Becca?

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A partire dal dato auto-biografico, che definisce la sostanza umana e alienata del film, The Shrouds è un film straziante, che anziché vivere sembra trascinarsi, cercare un’ultima via di sopravvivenza al dolore. Sarebbe facile fraintenderlo come un film stanco, o irrisolto, se non fosse che risiede proprio qui il suo fascino perverso. Sospeso in un limbo dove più che le domande, trovano spazio le tante risposte possibili, sempre procrastinabili, in un continuo rilancio di interpretazioni, false piste, possibilità tra la vita privata e la deriva psicotica della società post-industriale. A ogni modo il cinema di Cronenberg non era mai stato così trasparente, così auto-ironico nella sua dichiarata impasse, quasi si fosse “arreso” alla stanchezza di questo mondo al crepuscolo, all’accumulo di informazioni per i tanti film in uno che ormai sembra essere diventato un marchio di fabbrica per l’autore di Videodrome. Ha un bel da fare allora Karsh a raccogliere indizi sui suoi cospiratori, sulle ipotesi di complotto dei russi o dei cinesi, sulle immagini in 3D a raggi X che forse scovano ancora tracce di vita nella morte o forse no, sulle confessioni private che risvegliano fantasmi, ricordi di coppia che diventano incubi, suggerimenti di assistenti digitali manovrati da hacker. Niente da fare. Non c’è alcuna bussola adatta per questo mondo e non è concepibile alcuna verità, se non quella della resistenza delle proprie ossessioni. Il mondo è nel caos. Come nel finale di questa magnifica opera pulviscolare e smaterializzata, si rimane sospesi tra una meta e l’altra senza un spiegazione certa, nel dubbio di un sonno-veglia interminabile, dove le uniche “vere” sensazioni a cui rimanere aggrappati sono, ancora una volta, i desideri per i corpi che amiano. E il sesso. Prima del crash terminale.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
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Il voto dei lettori
3.8 (5 voti)
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