Il grande salto: sei registi horror dall’indie al blockbuster

Non solo Fede Alvarez, in sala con Alien Romulus: ecco sei giovani autori horror che hanno saputo compiere il grande passo, nascendo nel circuito indipendente, approdando poi al cinema blockbuster

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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a cura di Eugenio Grenna e Alessio Baronci

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È forse la grande estate dell’horror quella del 2024, almeno per il cinema americano, che nel giro di poche settimane ha potuto (e potrà) confrontarsi con gli ultimi progetti di alcuni dei nomi più interessanti del contesto pop contemporaneo, da Fede Alvarez a Ti West. È la conseguenza di un riassestamento del concetto di blockbuster estivo, sempre più piccolo, personale, contenuto anche nel budget forse ma se è vero che il mercato cambia a non mutare è proprio la natura del contesto horror, che anche in questo cinema così liquido, digitale, mutante, è ancora, sempre, una sorta di spazio sicuro in cui convivono le produzioni ad alto budget ed i progetti evidentemente di ricerca, uno dei pochissimi contesti in cui, tra l’altro, un regista può compiere un percorso di crescita uniforme che possa portarlo dagli esordi nel contesto indipendente fino al cinema d’alta fascia non tradendo mai davvero il suo immaginario di partenza. Quasi a voler tracciare una linea che leghi l’oggi ai primi lavori di James Cameron o Joe Dante, ecco dunque sei promettenti autori che, originariamente appartenuti al circuito indipendente, hanno compiuto il grande salto, destinati ad emergere sempre più.

 

Oz Perkins

Figlio d’arte di Anthony Perkins, Oz Perkins esordisce a nove anni come attore sul set proprio di Psycho II e lavorerà davanti alla macchina da presa per anni prima di assecondare il desiderio di scrivere e dirigere prodotti propri. A “lanciare” simbolicamente Perkins nel cinema sarà l’amico Bryan Bertino, altra grande firma dell’horror di ricerca contemporaneo, che gli produrrà l’esordio February, film già a suo modo programmatico di un immaginario ben definito  caratterizzato da una certa atmosfera perturbante, inquieta. Sono, in primo luogo, tutte storie al femminile quelle di Perkins, che segue le sue protagoniste mentre si confrontano con forze oscure che però, a ben vedere, sono soprattutto personificazioni dei loro lati più nascosti: solitudini, segreti, ma forse anche desiderio di emancipazione da un controllo opprimente. Quello della strega  del fenomenale Gretel & Hansel, rilettura della favola classica ammantata dalle atmosfere Post Horror, ma anche quello di un padre ingombrante con cui Perkins finisce per dialogare film dopo film, nel tentativo, forse, di far sentire la sua voce. E forse Perkins è riuscito nel suo intento grazie a Longlegs, la sua ultima creatura, serial killer movie con un Nicolas Cage nel ruolo dell’assassino che per la prima volta porta in primo piano la questione generazionale non solo nel tessuto del racconto (l’omicidia a cui l’agente FBI Lee Harker pare avere per bersaglio le famiglie) ma anche nello spazio del linguaggio: nel DNA del film di Perkins non è difficile individuare infatti tutta una galleria cinefila di precedenti illustri con cui cercare una connessione, dal Silenzio Degli Innocenti di Demme a Fincher, passando per Cure di Kurosawa. Longlegs sta ottenendo un incasso promettente in patria e da noi arriverà in tempo per Halloween, a Novembre.

Fede Alvarez

Come molti altri di quest’elenco, non si è mai attardato su questioni legate al rispetto di qualsivoglia tradizione Fede Alvarez, che nel 2013 esordisce rebootando la saga de La Casa con la benedizione dello stesso Sam Raimi e di Bruce Campbell, che producono il film. Pare un affascinante samurai latino, Alvarez, che in pieno cinema digitale difende e rafforza film dopo film un’estetica convintamente “analogica” retta da una fascinazione per l’effetto speciale pratico ma anche da un immaginario puntellato di sangue, rifiuti organici, corpi deformati, gusto per lo shock immediato. Alvarez ha dispiegato le sue ossessioni nel bel Man In The Dark, slasher con al centro un marine cieco che si difende da un gruppo di bulli che è entrato in casa sua ma colpisce la coerenza con cui il regista è riuscito a conservare il suo cinema praticamente inalterato anche nel momento in cui ha fatto il salto nel mainstream puro. Suo è infatti lo sfortunato ma affascinante Millennium – Quello Che Non Uccide nuova incursione nell’universo letterario di Stieg Larrson puntellato di exploit da splatter puro. Tornerà su lidi più usuali anche lui quest’estate, con Alien – Romulus rilettura mai così vicini agli spazi dell’home invasion a cento all’ora del franchise tenuto a battesimo da Ridley Scott (che qui produce)  e che si situa tra il primo ed il secondo capitolo.

Ti West

Forse, del novero di cui stiamo raccontando, è quello che da più tempo è “nel giro”, impegnato fin dai primissimi anni ’00 tra cinema e tv per inseguire una sua personale idea di horror. La intuisce in realtà prestissimo, fin da House Of The Devil, omaggio al cinema “demoniaco” degli anni ’70 ma anche riflessione tra le immagini sul cosiddetto Satanic Panic di quegli anni. Perché il cinema di Ti West è sempre a due versi: ben fermo nelle coordinate del genere ma anche attento a raccontare come quello stesso immaginario si sia il riflesso di un’America mai così falsamente puritana. E così mentre Alvarez si faceva le ossa collaborando con Eli Roth o lavorando ad un corto per la centrale antologia ABCs Of Death, dirige prima The Sacrament, mockumentary che ragiona di estremismi religiosi a partire dalle vicende della setta di Jim Jones e poi lo stranissimo western In The Valley Of Violence, che porta la sua riflessione sul lato oscuro dell’America alla sua stessa radice. Ti West entrerà nel cinema pop di altissima fascia con il film successivo ed in maniera mai così dirompente: con lo slasher hooperiano X inizia infatti quella che a tutti gli effetti è una delle più importanti trilogie dell’horror recente, un riattraversamento al femminile (grazie alla straordinaria performance di Mia Goth) cinefilo e metatestuale non soltanto delle derive classiche del genere ma anche dell’intero immaginario filmico americano e dei suoi rapporti con il tessuto socioculturale con cui interagisce. Dall’America degli anni ’70 dominata dai modi ribelli della New Hollywood ai patinati anni ’80, passando per l’America di inizio ‘900, dello studio system e dei musical avendo ben ferma sullo sfondo una riflessione sul contesto della pornografia come strumento ribelle di liberazione del corpo femminile. Da X, a Maxxxine, in uscita da noi dal 21 agosto, passando per il bellissimo Pearl.

Michael Sarnoski

Dalle cupe foreste di Portland di Pig, alle altrettanto angoscianti e potenzialmente fatali metropoli di A Quiet Place – Giorno 1, capitolo prequel del fortunato franchise horror di John Krasinski. Michael Sarnoski, giovane regista statunitense nato nel circuito indipendente, sembra avere tutte le carte in regola per emergere come nuovo autore da blockbuster hollywoodiani a suo modo “controtendenza”, un po’ come il collega Alvarez. Di Sarnoski fin dall’esordio ha in effetti colpito lo sguardo acutissimo ed empatico con cui osserva i suoi personaggi, quasi che il cineasta americano si considerasse l’ultimo custode di un umanesimo sempre più raro in un cinema sempre più freddamente calcolato, preda degli algoritmi e, irrimediabilmente, disumanizzato. Vale per Nicolas Cage, che in Pig non viene mai lasciato troppo solo da una macchina da presa che si dimostra sempre più solidale con le sue sofferenze interiori ma vale anche per la brava Lupita Nyong’o, protagonista di A Quiet Place – Giorno 1 forse emblematicamente nel ruolo di una malata terminale che proprio durante l’Apocalisse imparerà a riassaporare il piacere delle piccole cose.

Nia DaCosta

Nia DaCosta, cineasta classe 1989, ha cominciato il suo percorso autoriale nel dramma familiare a tinte western. Lo ha fatto con Little Woods, presentato in anteprima mondiale al Tribeca Film Festival nel 2018, per poi spostarsi sempre più verso il cinema mainstream con Candyman, sequel diretto del cult horror Candyman – Terrore dietro lo specchio di Bernard Rose. A produrre la DaCosta, Metro-Goldwyn-Mayer e la Monkeypaw Productions di Jordan Peele. L’approccio alla realtà hollywoodiana delle grandi majors non è dunque tra i più traumatici e complessi. A distanza di pochi anni, ancora una volta come la collega Chloé Zhao, anche la DaCosta approda al blockbuster supereroistico, è il caso di The Marvels, il 33º film del Marvel Cinematic Universe, sequel del film Captain Marvel, nonché continuazione della miniserie televisiva Ms. Marvel. Il percorso della giovane regista non è ancora del tutto tracciato, ma ciò che ci è possibile osservare fa sperare per il meglio.

Arkasha Stevenson

Un ultimo nome che sa di scommessa, perché tra quelli citati Arkasha Stevenson è quella con il curriculum più povero ma al contempo più promettente. Dopo aver lavorato ad alcuni corti scolastici e aver diretto alcuni episodi di serie tv (da Legion Channel Zero), Arkasha Stevenson esordisce infatti solo nella primavera di quest’anno con il fulminante Omen – L’origine del presagioprequel del classico di Richard Donner che, trascinato dalla straordinaria performance di Nell Tiger Free rilegge l’immaginario classico horror all’insegna di un sentimento anticlericale e di una riflessione non scontata sul corpo della donna, sulla maternità e sull’autodeteterminazione femminile. Sostenuto da un budget da “indie di prestigio” (circa 30 milioni di dollari), il film ha incassato cifre da blockbuster (quasi 60 milioni di dollari).

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