SiciliAmbiente Film Festival 2024: incontro con Giulio Mastromauro per Bangarang

In concorso nella sezione Documentari del festival, il regista di Bangarang ci ha raccontato dei bambini di Taranto alle prese con il mostro dell’Ilva e di quanto sia necessario dare loro bellezza

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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Dopo aver ottenuto il premio della critica alla Festa del cinema di Roma e la candidatura ai Globi d’Oro, stai portando Bangarang – il film che fa raccontare ai bambini di Taranto cosa significhi vivere nella città con la più grande acciaieria d’Europa ed attualmente disponibile su Mymovies ONE – in concorso al SiciliAmbiente Film Festival: ti interessava far vedere il tuo lavoro in un festival che sin dalla denominazione richiama la tematica ambientale?
Giulio Mastromauro: Il SiciliAmbiente Film Festival è un festival che seguo da diverso tempo. Sono già stato in concorso nella sezione Cortometraggi con il mio “Inverno” che proprio qui ha anche vinto un premio. Sono particolarmente felice di tornare e questa volta presenterò il film di persona, a differenza di quando non potei fare con Inverno nel 2020. Non era mia intenzione inizialmente fare un film legato in maniera prioritaria al tema dell’ambiente: io ero a Taranto per un sopralluogo di un altro progetto ma sono rimasto folgorato dalla città, dalla sua bellezza, dai suoi stimoli e dalle sue tradizioni e, dato che l’infanzia è un argomento che mi sta particolarmente a cuore, cerco di approfondirlo in tutti i miei progetti. Così mi sono chiesto perché non raccontare l’infanzia di una periferia industriale che non differisce molto da altre periferie d’Italia e del mondo. Taranto però è sfortunatamente conosciuta per l’acciaieria e nonostante i miei tentativi, in una prima fase, di escluderla dalla narrazione o quantomeno di non renderla troppo centrale, mi sono reso conto col passare delle settimane che era una presenza ingombrante. Non solo a livelli di spazi ma anche a livello del dialogo costante che la città stessa ha sul tema: l’Ilva era sempre lì, qualunque fosse il mio punto di osservazione dal quale guardavo e ascoltavo la realtà che mi stava attorno. Così nel film è diventata il mostro, la nemesi dei bambini che sono protagonisti.
Proprio su questa inesorabilità del mostro Ilva, tra le tante penso ad una delle scene iniziali del tuo film, quando anche dal totale del cavallo che si disseta all’abbeveratoio di un casolare di compagna si vedono le gigantesche torri dell’acciaieria: diventa davvero impossibile escluderla.
L’acciaieria è grande tre volte Taranto e ormai è un elemento del paesaggio come il mare e il cielo. Anche io ho percepito la rilevanza del fenomeno nella scena in cui alcuni bambini sono sul peschereccio e stanno trascorrendo il tempo tra chiacchiere e pallone. C’è stata una fumata, uno sbuffo di una ciminiera da lontano che è entrato prepotentemente nell’inquadratura anche se non lo cercavo. Quello è stato il primo segnale che mi trovavo in una città che probabilmente ha bisogno di essere raccontata nella sua bellezza ma anche nelle sue storture. L’idea di escludere l’Ilva dal racconto nasceva dal mio desiderio di non lucrare su questo fattore, di non fare un film d’inchiesta “facile”. Con i bambini è nato un rapporto meraviglioso, fatto soprattutto di rispetto e fiducia reciproca. La loro infanzia rimane comunque spensierata perché sono inconsapevoli del rischio che incombe ed era proprio questo elemento che mi interessava esplorare. Penso che emerga dal film questo contrasto molto forte tra il pericolo ed allo stesso tempo la leggerezza dei bambini. Loro non si sono mai sentiti giudicati, né sfruttati o strumentalizzati ma sono sempre stati parte attiva di questo processo.
Io ho cercato di ascoltare la realtà così com’è, non l’ho giudicata, l’ho osservata con affetto e profondo rispetto. Naturalmente c’erano delle situazioni che da genitore mi mettevano di fronte a domande sull’assenza di padri e madri ma in realtà sono loro ad essere bambini molto cresciuti, già adulti. Io comunque sono contento che il film venga compreso ad ogni latitudine, noi ad esempio siamo stati in Giappone, a Seul e in altri festival importanti perché il film propone un racconto che passa continuamente dal particolare all’universale e tutto quello che vediamo è, secondo me, un manifesto dei nostri tempi. Taranto è esemplare in questo senso ma il film vuole aprirsi anche a una riflessione più profonda sul presente
In effetti alcuni di questi bambini hanno facce e modi di fare di 30/40enni veramente tipici di regioni in cui gli si chiede di crescere in fretta. Tu hai fatto un lavoro di casting scegliendo magari i piccoli più rappresentativi o la cosa è avvenuta più spontaneamente?
Io sono stato in qualche modo introdotto in vari quartieri e sono stato messo in contatto con diverse realtà sociali del territorio, come Giovanni Guarino del Teatro Crest che è un baluardo di resistenza a Taranto, un polo culturale nel quartiere Tamburi che fa un lavoro incredibile, in particolare con i bambini. Penso anche a Giuseppe Novellino della città vecchia che mi ha aiutato tantissimo ad entrare nei quartieri più complicati, come le Case Parcheggio. Grazie a loro ho conosciuto quindi alcuni di questi bambini che sono poi diventati il coro del film. Il rapporto è stato da subito stretto: tutto è avvenuto in maniera molto rapida perché, senza voler incensarmi, mi riconosco il talento di saper dialogare con i piccoli in maniera quasi naturale, senza strategia, con reciproca fiducia. Io e la mia piccola troupe di quattro persone ci siamo subito affezionati e li abbiamo coinvolti come parte attiva della macchina cinema. Quando non erano in scena, ad esempio, ci facevano da assistenti e questo ci ha permesso di creare una complicità che facesse in modo che si lasciassero andare spontaneamente. Da parte nostra non c’è stato il tentativo di traviare la realtà o di distorcerla: è stata la verità a prendersi il suo spazio. Bangarang è stato un film molto istintivo perché con bambini molto liberi, indipendenti e irruenti era necessaria una regia che cavalcasse l’imprevisto costantemente, che sapesse cogliere l’attimo. Con Sandro Chessa componevamo l’immagine e lasciavamo che creassero la magia all’interno dell’inquadratura. Gli unici momenti un po’ più convenzionali sono le interviste con cui volevo mostrare allo spettatore la loro dolcezza, la loro ingenuità, la loro verità…
Questa onestà si vede anche nel finale con le didascalie scritte che chiudono il film: è vero che i bambini riescono a vivere anche in una realtà così difficile ma non dimentichiamo chi è che ha portato quel mostro dentro la città.
Sì, per me a Taranto sono tutti vittime in qualche modo. Anche i loro padri che hanno scelto di accogliere il siderurgico negli anni Settanta non avrebbero mai e poi mai immaginato queste conseguenze disastrose. Il mio è un film che non vuole significare bensì semplicemente gettare un seme perché vuole portare lo spettatore a conoscere una realtà e farsi un’idea. E forse anche per questo alla visione risulta anche più duro perché ti fa sentire impotente: è vero che la vita scorre ma non sai come fermare quest’ordigno. Taranto è una città profondamente divisa sul tema, che vive costantemente questo contraddizione. Per loro la distanza dall’acciaieria basta a salvarli: le persone che vivono a quattro/cinque chilometri si sentono molto più sicure rispetto ai quartieri Paolo VI e Tamburi. Non si rendono conto che in realtà non c’è differenza e che l’impatto ambientale che l’acciaieria ha sul territorio è enorme ovunque. Certo, a Tamburi la situazione è molto più grave e visibile sin dall’inquietante polvere rossa che “accoglie” i bambini quando tornano a casa dopo i loro giochi. Questa è stata la cosa che più mi ha ferito perché, allargando il discorso oltre l’inquinamento e l’acciaieria, emerge l’assenza delle istituzioni. Perché un bambino che deve tutte le mattine svegliarsi, andare a scuola intorno a sé deve avere solo degrado, incuria e abbandono? Le periferie sono da sempre relegate ai margini, dimenticate. La rabbia nasceva in me quando immaginavo un bambino come quelli del film, così intelligenti, profondi e sensibili che non hanno la possibilità di svegliarsi e affacciarsi alla finestra su un mondo di bellezza.
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