Il caso Yara – Oltre ogni ragionevole dubbio, di Gianluca Neri

Su Netflix si ri-svolge al tempo presente il processo a Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio, ma le regole sono quelle della post-verità che ci governa oggi. Un’esperienza emblematica

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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Ho un dubbio. H-ho un dubbio

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C’è un reel che mostra un estratto da un’intervista a Keanu Reeves. L’attore ricorda di aver raccontato una volta la trama di Matrix ad una ragazzina di 13 anni: “Neo vuole solo capire cosa è reale e cosa non lo è”. “E perché?”, risponde la 13enne. Reeves è basito: “davvero non ti interessa sapere cosa sia reale e cosa meno?”. “No”. A quel punto Keanu guarda il suo intervistatore e chiosa: “non è awesome?”. Ora. Sono anni che ripetiamo in diverse occasioni quanto il cosiddetto true crime di questa generazione sia la cartina di tornasole più esplicita riguardo il predominio, nella nostra epoca di infocrazia, della cosiddetta post-verità, che è esattamente quello che accade nella storiella di Keanu Reeves: un contenuto si auto-legittima quanto più diviene virale, viene condiviso, commentato, interagito, perdendo così qualsiasi connessione con la propria verosimiglianza, figuriamoci con la propria veridicità, che non ha più alcun interesse. E non è un caso che proprio la saga di Lana e Lilly Wachowski sia stata in questi anni assunta a grande metafora di una narrazione del reale costantemente mediata, filtrata, modificata da parte di quei gruppi che, tra pagine social, gruppi Telegram e discussioni su Reddit, promulgano una visione del presente come in scacco perenne tra quella che Slavoj Žižek indica come l’unica lotta di classe ancora “in piedi”, e cioè quella élite vs popolo.
Lo ha spiegato, molto meglio di quanto potremmo fare, un volume cruciale come La Q di Qomplotto di Wu Ming 1, ma lo dice anche (nella lucidissima lettura del New Yorker) Bussano alla porta di Shyamalan: esposti a frammenti di verità del tutto scollegati tra di loro, proprio per la loro natura di essere gli unici elementi a nostra disposizione, tenderemo a costruire tra di essi collegamenti, connessioni e teorie che non hanno alcun reale fondamento ad una visione più ampia.

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Qualcuno potrebbe obiettare che Gianluca Neri imbastisca l’andirivieni temporale de Il caso Yara, che in molti hanno trovato fastidioso, proprio per costruire questo tipo di connessioni latenti e “forzate” (per fare un altro esempio, era la maniera in cui funzionava l’aberrante Leaving Neverland di Dan Reed). D’altra parte però, è già la prova video del furgone che gira intorno alla palestra 16 volte ad essere stata manipolata e ricostruita temporalmente dai Ris per “esigenze comunicative”, e così lo abbiamo visto e rivisto noi telespettatori in quei giorni di ricerca spasmodica. Siamo nel 2010 e già avevamo capito da quasi un decennio come le immagini istituzionali potessero essere smontate al pari di quelle spurie che ognuno di noi stava imparando a portare nella tasca.

Il solito ignoto

Esigenze comunicative. In questa sede non ci interessa ovviamente partecipare alla discussione sulla colpevolezza o meno di Massimo Bossetti, che ha tenuto banco nella “bolla” fino alla vittoria di Imane Khelif dell’altro giorno a Parigi – ma, come direbbe la bambina a cui Keau Reeves raccontava Matrix, è davvero importante avere la risposta definitiva, all’interno di questa costante riscrittura automatica in cui galleggiamo, quella in cui si agitano i meme da “Un giorno in pretura” insieme a quelli su Wanna Marchi? Sì, è una prospettiva scivolosa, ma è proprio questo il punto, e vicende come quella di The staircase ci hanno già ragguagliati su quanto le “esigenze comunicative” soggettive e personali facciano la realtà di queste immagini.

Neri conferma qui la capacità di delineare personaggi secondari che vivono di vita propria, come fatto già in SanPa (ho perso il conto dei messaggi che mi sono arrivati da persone diverse che chiedevano a gran forza lo spin-off sulla mamma di Bossetti e il ginecologo…), e sappiamo tutti quanto la serialità documentaria – non solo nera – contemporanea sia costruita secondo gli stilemi dello storytelling cinematografico, per cui Il caso Yara ha bisogno innanzitutto di un grande cattivo, e il pm Letizia Ruggeri si staglia in quest’ottica come un’antagonista favolosa, quasi disneyana (sia chiaro che ho ben presente il pericolo politico, che in Italia ha una sua disgraziata tradizione, del delineare i “magistrati cattivi”, e al riguardo rimando alla ferma analisi di Luca Sofri su questa serie).
Anche perché, ha ragione il veterano Pablo Trincia, a cui dobbiamo tutto, l’unica vera “bomba mediatica” qui è l’intervista al Massimo Bossetti ergastolano di oggi, e al personaggio purtroppo manca del tutto qualsiasi fascino, anche morboso, persino Franca Leosini (a proposito di “innocentisti”, vi ricordate la puntata doppia di Storie maledette su Sabrina Misseri e sua madre?) farebbe fatica a tirarne fuori una figura potente, se non fosse per tutte le sue torbide vicende genetiche e familiari – a cui puntualmente ricorre infatti il processo e quindi la serie. Ritorna il ritratto della provincia italiana come covo di perfidia in villetta, di tresche intergenerazionali, di segreti perniciosi e rancori incrostati nei palazzi in costruzione nelle periferie, su cui Giuseppe Genna ha costruito il vertiginoso Yara – Il true crime.

Come ripetiamo tutte le volte, qualsiasi narrazione contemporanea è una narrazione obbligatoriamente al tempo presente, e questi cinque episodi appaiono effettivamente come vedere il processo ri-farsi, svolgersi nuovamente ma solo nella matrix (ai suoi tempi, e sempre per restare su Netflix, Sulla mia pelle ebbe invece l’effetto di riaprire il caso-Cucchi anche “in real life”).
Si parla tanto in questi tempi di competenze, quelle fondamentali e quelle “neonate”: ecco, noi non abbiamo competenze legali ma Il caso Yara, alla stregua del true crime quando funziona, ci conferma con forza come abbiamo bisogno di acquisire competenze inedite per riuscire a decifrare il segno delle immagini incessantemente (dis)simulate che veicolano la comunicazione tutta della nostra epoca, su ogni device, ad ogni latitudine, su qualsiasi argomento, dai conflitti bellici ai giochi olimpici alle liti tra influencer. E quanto il cinema, avendo perso la propria centralità come meccanismo narrativo novecentesco, ne abbia ora acquisita una nuova – proprio in posti come le piattaforme, i reels, le stories – di puro linguaggio alla base della costruzione stessa della realtà. Fosse anche solo per questo motivo, si tratta di una visione imprescindibile.

Regia: Gianluca Neri
Distribuzione: Netflix
Durata: 5×55′
Origine: Italia, 2024

La valutazione della serie di Sentieri Selvaggi
3.8
Sending
Il voto dei lettori
1 (2 voti)
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