La vita accanto, di Marco Tullio Giordana

L’incontro con Bellocchio porta il cinema del regista verso incantate derive fantasy/horror. Così si è improvvisamente ringiovanito nel rincorrere il tempo della memoria. LOCARNO77. Fuori Concorso

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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Volto di donna. Gli echi lontanissimi possono partire da Gustaf Molander (Senza volto) e The Woman’s Face di George Cukor del 1941. I primi piani sulla protagonista in La vita accanto, ispirato al romanzo di Mariapia Veladiano che ha vinto il Premio Calvino, rivelano e nascondono, proprio come nel caso di una giovanissima Ingrid Bergman nel primo film e di Joan Crawford deturpata e contagiata dal Male nel secondo. Il dolore, nel nuovo film di Marco Tullio Giordana, non è però nel corpo di Rebecca. O, almeno, non soltanto. Contagia invece una famiglia bene vicentina in cui ogni respiro vitale si interrompe. Tutto diventa fermo, immobile. Così, proprio nel modo in cui gli interni familiari potrebbero essere attraversati da spettri, si sente la mano di Marco Bellocchio, co-sceneggiatore assieme a Gloria Malatesta e il regista.

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Tutto comincia nel 1980 quando nasce Rebecca. La madre Maria (Valentina Bellè) è su di giri e condivide la sua gioia con il marito Osvaldo (Paolo Pierobon) ed Erminia (Sonia Bergamasco), la sorella gemella di lui che è anche pianista di successo. Ma dopo il parto, la famiglia nota che la bambina ha qualcosa di strano; sulla sua faccia infatti c’è una voglia rossastra che la copre per metà. Da quel momento, piomba nello sconforto. Maria cade in depressione e rifiuta le sue responabilità come madre. Osvaldo è come impotente. Solo Erminia si accorge che Rebecca ha talento come pianista. Così la protagonista vede nella musica la possibilità per un riscatto personale.

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Dedicato a Chantal Akerman, La vita accanto fa convivere l’accurata ambientazione dei luoghi e dei personaggi con un impulso contagioso in cui il cinema di Giordana sembra essersi improvvisamente ringiovanito. Ed è proprio nell’omaggio alla grande cineasta francese scomparsa nel 2015 che il film cattura i gesti, le vie di fuga, il legame ombelicale ma anche di aperto contrasto con i luoghi. Ci sono scatti di rabbia (Maria che non sopporta il suono degli esercizi della figlia al piano, il litigio di Rebecca con il padre quasi risvegliato da quel sonno profondo in cui è piombato dalla sua nascita) che si alternano con il silenzio e il vuoto, ma anche tanti, possibili, ritorni alla vita. Così è proprio dalla casa che riemergono i segni del passato (il diario e i disegni di Maria), ed è nello stretto rapporto tra memoria e identità – che è tra i temi ricorrenti del cinema di Giordana – che Rebecca (portata sullo schermo da Sara Ciocca da ragazzina e da Beatrice Barison che sorprende per l’intensità che regala a un personaggio difficile) riesce a uscire da un isolamento che non è soltanto suo ma è come se appartenesse solo a lei. La storia privata non s’intreccia a quella italiana come nel caso di alcuni film più famosi del regista come La meglio gioventù o Romanzo di una strage. In più il ‘volto di donna’ di La vita accanto non segue un preciso percorso narrativo come nel caso di Nina/Cristiana Capotondi in Nome di donna.

Malgrado qualche distorsione eccessiva come nella seduzione e inganno da parte di un coetaneo studente di musica di Rebecca o il modo in cui viene mostrata l’aggressione nel sonno da parte della madre della protagonista, sono le derive fantasy/horror che portano il cinema di Giordana verso territori nuovi, riconoscibili ma anche inesplorati, in cui risulta decsamente felice il suo incontro con Bellocchio. Gli sguardi dala finestra, il rumore del tuffo nel fiume. Sono percezioni, oppure già oscuri presentimenti. Gli stessi della famiglia di Lucilla, amica di Beatrice. Nelle scene in cui si trovano insieme quando sono bambine potrebbero esserci – forse è pura allucinazione – delle strane corrispondenze con i biopic sulle star del rock. Sono i tanti strati di un film che rincorre ancora il tempo perduto, anche attraverso il dramma. Non c’è più Giordana solido narratore. Stavolta c’è qualcosa di più inafferrabile, anche confuso. Ma con un nuovo scatto. L’ombra di Chantal Akerman è probabilmente contagiosa.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.7
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Il voto dei lettori
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