Luce, di Silvia Luzi e Luca Bellino

Una delle priorità dei due cineasti è rivendicare la coerenza di un percorso, perciò ribadiscono i motivi del loro cinema. Ma c’è anche una sensazione di sofferta cupezza. LOCARNO77. Concorso

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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Quando, a pochi minuti dall’inizio di Luce, si sente dallo stereo dell’auto una voce che canta O’ silenzio do dolore, una delle hit di Sharon Caroccia, capiamo di essere ripiombati al centro del Cratere. E sebbene Marianna Fontana, intensa protagonista senza nome, chieda “ma che è ‘sta lagna?”, non può far a meno di cantare. Il richiamo al film precedente di Silvia Luzi e Luca Bellino è sottile, eppur esplicito. Ma non si tratta, semplicemente, di un tenero omaggio. Perché suggerisce un legame profondo tra i due film, forse anche come falsa pista. Al punto che, a un tratto, le dinamiche di relazione di Luce sembrano diventare quasi una prosecuzione speculare de Il cratere. Là c’era un rapporto profondo e morboso tra un padre e una figlia che si concludeva con una fuga di Sharon che aveva il valore di una ribellione, un sottrarsi a un regime di controllo che trovava la sua espressione più autoritaria nel circuito chiuso delle videocamere installate da Rosario. Qui c’è una figlia che tenta, in maniera assurda, di recuperare un rapporto impossibile con il padre detenuto, un uomo che non si vedrà mai e di cui sentiremo (forse) la voce al telefono (ed è quella di Tommaso Ragno): inquietante acusma che proviene da un’altra dimensione. Legami e sparizioni…

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Comunque la si voglia intendere, è evidente come una delle priorità di Silvia Luzi e Luca Bellino sia di rivendicare la coerenza di un percorso. Perciò rimettono in circolo i motivi del loro cinema: lo scatto di orgoglio delle vite già segnate, la claustrofobia dei rapporti familiari, la durezza della fabbrica, che già era stata al centro del documentario di lotta Dell’arte della guerra. La protagonista di Luce, infatti, lavora in una conceria e la prima scena sul posto di lavoro è nel segno del conflitto, con una rissa furibonda tra due operai. Conflitto che sembra replicarsi costantemente nei dialoghi tra le lavoratrici, duri, spigolosi, a far trasparire una rabbia e una frustrazione che vanno ben al di là di qualsiasi idealistica solidarietà di classe. Ma, ancor più, a essere ribadita è un’idea di cinema che si concentra sulla linea di confine tra la finzione e il reale, su quella striscia di terra in cui la trama germoglia su una specie di radice documentaristica. Attori e attrici non professionisti, la sceneggiatura da definire e riscrivere in corso d’opera, la stessa interpretazione di Marianna Fontana che, per calarsi nel ruolo, va a lavorare in fabbrica per alcuni mesi.

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Ma a dispetto di quest’attenzione al reale, ciò che sfugge, in parte, è il contesto. Ecco una delle questioni centrali. Sappiamo che il film è girato in gran parte nel polo conciario di Solofra, in provincia di Avellino. Poi si sposta qua e là… Ma le immagini di Luzi e Bellino, come già ne Il cratere, preferiscono restare strette, concentrate sui volti. L’ambiente, tutto ciò che è intorno, perde fuoco, sembra a poco a poco scivolare nell’indistinzione. Proprio come annunciato dalla prima scena premonitrice, con il gruppo sfocato in posa per la foto, da cui emerge, all’improvviso, Marianna Fontana, con l’espressione assorta, segnata. Di lei sappiamo ben poco, della sua vita, della sua storia. Il passato non ha nome. Poco importa. Ciò che è certo è quando l’esterno perde forma e si dissolve, l’interno prolifera e diventa ingombrante, assume un dominio distorto sulle cose. Ed ecco, dunque, che a prendere il controllo è la dimensione emotiva della protagonista, la gamma delle sue reazioni a fior di pelle, dei suoi sentimenti a fatica trattenuti. A cui fa il paio la voce che sta dall’altra parte del telefono, quella di un uomo che immagina una vita che non può avere. Quasi un riflesso di lei, una proiezione, tanto che a un certo punto sorge il sospetto che sia tutto un sogno, una percezione allucinata. In ogni caso, che sia realtà o immaginazione, si tratta di due solitudini che tentano un incontro impossibile, che sembrano vivere per un istante nell’illusione di un contatto.

Ma l’impressione è che Luzi e Bellino cerchino di spostare la dimensione del film dal regime dell’illusione a quello dell’allusione. Tutto, in Luce, sembra segno di qualcosa, rimando a una verità indicibile o concretizzazione simbolica di un’idea. E forse è qui che si avverte una fatica sofferta, come a un’ostinazione a trovare la strada, quella che colleghi il pensiero all’emozione, la teoria e la vita. L’insistenza per quelle inquadrature, soffocanti, che già nel film precedente rischiavano di diventare una maniera, qui diventa ossessiva, implacabile. Stringe le maglie intorno ai personaggi, a partire dalle gabbie delle immagini. E perciò, ancora una volta, hanno un valore essenziale i dispositivi, il drone, il telefono, gli schermi, fino a quella TV in cui Mariana Fontana osserva sè stessa, specchiandosi e, letteralmente, sdoppiandosi. Ma se nella sgranatura dell’immagine del circuito chiuso, Sharon scopriva un’imprevedibile via di liberazione, qui non sembra esserci un’apertura, se non, forse, in una dolorosa consapevolezza. Nonostante le note e le parole di Gian Maria Testa (un canarino canterino addomesticherò per le giornate scure), permane un sensazione cupa. E restiamo in attesa che arrivi nuova luce.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.4
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Il voto dei lettori
1 (1 voto)
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