Moon, di Kurdwin Ayub

Un’interessante opera seconda che lavora sull’abbattimento delle distanze che separano le donne del mondo. Semplice nella forma ma di grande intensità. LOCARNO 77. Concorso Internazionale

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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Austria e Giordania: due mondi agli antipodi, per tradizioni, cultura, lingua, clima. Due facce della stessa medaglia, o meglio, due facce della stessa luna, come suggerisce il titolo di questo buona opera seconda di Kurdwin Ayub, regista nata in Iraq ma attualmente residente a Vienna, conosciuta per il suo esordio nel lungometraggio di finzione con Sonne, film premiato alla Berlinale 2022 nella sezione Encounters.

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Moon, presentato in Concorso Internazionale alla 77° edizione del Festival di Locarno, è un’opera che lavora sull’abbattimento delle distanze che separano le donne del mondo. Il concetto di sorella, in questo senso, abbraccia una dimensione universale, mostrandosi come unione di intenti per abbattere le catene e le gabbie trasversali imposte all’universo femminile dal retaggio patriarcale che vive e prospera nel mondo arabo così come, in forme diverse, nella moderna e liberale Europa.

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Sarah è un’ex atleta professionista austriaca di arti marziali. Dopo vent’anni nell’agonismo, si trova decisamente a disagio nel mondo che si è costruita nel tempo. Ha una sorella, da poco madre, con cui si sente saltuariamente in chiamata, anche se, tra le due è sempre molto complicato comprendersi, “raggiungersi a vicenda”. Terminata la sua esperienza nel mondo del professionismo, sente la necessità di ricercare qualche nuovo stimolo che la aiuti a ritrovare la propria identità perduta. Così, di punto in bianco, abbandona l’Austria e accetta un’importante offerta di lavoro. Andrà ad allenare tre giovani sorelle di una ricca famiglia in Giordania per qualche mese. Il mondo che le si presenta davanti sembra un sogno: alberghi di lusso, autisti privati, tutto a carico di chi l’ha assunta; per non parlare dell’enorme abitazione che la accoglie per il suo primo giorno di lavoro. Ma quello che in apparenza sembra l’impiego dei suoi sogni non tarda a mostrarle i primi, inquietanti, campanelli d’allarme. Le giovani sorelle che deve allenare vivono, in realtà, prigioniere nella loro stessa abitazione, tagliate fuori dal mondo e costantemente sorvegliate dai fratelli. Lo sport non è sicuramente il loro interesse principale e il ruolo di Sarah assumerà col tempo tutt’altro scopo.

La protagonista del film di Kurdwin Ayub si sente, a tutti gli effetti, un pesce fuor d’acqua all’interno delle rigide dinamiche che regolano la vita delle tre sorelle. Niente telefono, niente social network, nessun accesso alle stanze delle ragazze al piano di sopra dove, ben presto, si scoprirà che la ricca famiglia nasconde un segreto raccapricciante. Allo stesso tempo, però, la gabbia dentro cui sono rinchiuse letteralmente le tre (anzi, quattro) sorelle giordane non è altro che lo specchio della gabbia mentale in cui si reclude l’europea ed emancipata Sarah, la cui vera e più autentica interiorità si manifesta solo durante una serata ad alto tasso di alcol.

Ayub, attraverso una regia piuttosto convenzionale, leggermente più sperimentale nella parte conclusiva, lavora tanto sullo spirito di fratellanza universale che cresce giorno dopo giorno tra Sarah, reclusa dentro se stessa, e le sue allieve, prigioniere materiali di un mondo fatto ancora di abusi e repressione nei confronti della donna. E così, vengono in mente, come dei flash, le fresche immagini, i reels e le storie che raccontano gli abusi e le violenze del regime iraniano in The Seed of the Sacred Fig di Mohammad Rasoulof che dopo il Festival di Cannes, è passato in Piazza Grande proprio qui a Locarno. Anche in quel caso si parlava di un ecosistema famigliare complicato in cui due sorelle e una madre facevano fronte comune diventando la perfetta metafora delle proteste di milioni di giovani donne in tutta la repubblica islamica, portata avanti al grido di: Donna, vita, libertà.

E ritornando a Moon: qui il fronte di lotta popolare femminile e femminista si allarga ancora di più, attraverso l’ottimo finale in cui, finalmente, viene ritrovata una necessaria e improrogabile unione di intenti femminile universale.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.6
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