L’oro di Napoli, di Vittorio De Sica

Dai racconti di Giuseppe Marotta, mostra una città in cui morte e vita danzano sfrenatamente. Una grandiosa danza macabra dai toni dark. VENEZIA81. Venezia Classici.

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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Cominciamo dal quarto dei sei episodi che compongono L’oro di Napoli, dodicesimo film di Vittorio De Sica, datato 1954. Si intitola Il funeralino e, a differenza degli altri, non è tratto dall’omonima raccolta di racconti di Giuseppe Marotta bensì da un soggetto originale di Cesare Zavattini (sceneggiatore di tutti gli episodi con De Sica e lo stesso Marotta). Soggetto lungo probabilmente quanto il titolo, poiché a partire dalla situazione di partenza nulla accade: la processione funebre di un bambino, dalla casa materna sino al lungomare, è l’oggetto di una narrazione assorta e silente, che costruisce il tempo reale, spalancandosi ad essa sino alla lacerazione, senza volontà di cercarvi nulla ma con l’altissima ambizione di trovarvi la chiave del più abissale tra i misteri, quello del tempo appunto.

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I produttori Ponti e De Laurentiis, già sul chi va là a causa delle incerte fortune desichiane al botteghino, non potevano permettere che la Napoli vista dall’America sfuggisse al solito bozzettismo vitalistico e arrangione ed epurarono l’episodio. A vederlo oggi, Il funeralino salta all’occhio come chiave di volta di tutta l’operazione: difficile restare indifferenti, al di là delle pizze della Loren e dei pernacchi di Eduardo, al profondo senso di morte che attraversa la Napoli di De Sica. Già l’apertura lascia pochi dubbi: da una veduta del Vesuvio, convenzionale e cartolinesca, si passa con una rapida panoramica verticale a una lapide, sulla quale Totò, rivolto alla defunta, sospira “Beata te!”.

Nell’episodio Il guappo il pazzariello Totò, icona immortale quanto la Marilyn di Warhol, si ribella alle angherie di un guappo nel momento in cui questi si rivela in fin di vita. Di malattie terminali si parla anche nell’episodio successivo, Pizze a credito, in cui Paolo Stoppa si ingozza di pasta e lacrime al termine dell’agonia della moglie e una ventenne Sophia Loren, pizzettara, sfoga con il povero Giacomo Furia la sua inclinazione al tradimento. Nel quarto, I giocatori, l’inguaribile giocatore De Sica filma impietosamente la sua stessa malattia durante una partita a carte (altra costruzione zavattiniana del tempo reale) con il figlio del portiere. Del terzo, Il funeralino, si è già parlato; nel quinto, Teresa, lo spettro di una suicida per amore spinge Ernio Crisa a sposare la prostituta Mangano per svergognarsi ed espiare così la propria colpa. E cos’è il famigerato pernacchio eduardiano del sesto episodio, Il professore, se non un esorcismo in veste di sberleffo? Forse L’oro di Napoli è il segreto custodito dall’anima dark di una città nietzschianamente abituata a ballare sui cadaveri? Se così fosse, quanti avrebbero potuto raccontare questa eterna, splendida danza meglio del provetto ballerino De Sica?

 

Restauro: Cinecittà / Filmauro

 

Regia: Vittorio de Sica
Interpreti: Totò, Sophia Loren, Vittorio De Sica, Silvana Mangano, Eduardo De Filippo, Tina Pica, Paolo Stoppa, Erno Crisa, Giacomo Furia
Durata: 132′
Origine: Italia, 1954

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
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Il voto dei lettori
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