Peacock, di Bernhard Wenger

Gioca con ironia sull’incapacità del protagonista di essere sé stesso. Ed arriva ad abbattere il confine che ci separa dalle sue (e quindi anche nostre?) stranezze. VENEZIA81. Settimana della Critica

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Per Matthias (Albrecht Schuch) sembra quasi impossibile discernere tra ciò che è reale e quel che è banalmente falso. Dovendo gestire un’agenzia di “supplenze umane” che permette ai singoli clienti di “affittare” un attore come proprio coniuge, figlio o semplice interlocutore, l’uomo si trova a vivere in uno stato costante di finzione, che filtra in ogni angolo della sua esistenza. A differenza di un interprete teatrale o cinematografico abituato a radicare la propria performance su un set o su un palcoscenico – e quindi in un luogo creativamente ricostruito, finalizzato ad esaltare la finzionalità del gesto espressivo e a caricarla di uno spirito vitale – il protagonista di Peacock, al contrario, declina le sue interpretazioni negli spazi della quotidianità: ovvero nei luoghi dove un individuo, in quanto essere sociale, costruisce la propria identità nonché il sistema di valori che lo contraddistingue. E dal momento che il confine tra lo spazio domestico e quello “creativo” per lui non esiste, ecco che Matthias si ritrova incapace di percepire la propria identità: entrata ormai in uno stato di frantumazione inesorabile.

A mettere in moto il racconto, e a generare insomma il dissidio interiore dell’uomo, sarà la separazione dalla moglie, la cui assenza – sollecitata, appunto, dall’incapacità del protagonista di reagire emotivamente alle sue parole o di esibire delle azioni che lo configurino come un umano, e non alla stregua di un mero automa depauperato di emozioni – determinerà per Matthias una sequela di eventi o situazioni relativamente bizzarre, con cui dovrà confrontarsi se desidera ritrovare l’umanità perduta. Ed è proprio a partire da queste coordinate che Peacock ramifica tutto il suo (sempre equilibrato) spirito comico. E lo fa operando, con grande precisione, su due livelli: la vacuità interiore dell’uomo – fonte e sorgente dei registri ironici del film – e la connessione tra questa sua singolarità identitaria e gli spazi che lo circondano. Destinati a connotarsi di sfumature grottesche, in linea con la personalità di colui che li abita.

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Più Peacock gioca, a fini umoristici, sulle stravaganze del protagonista, maggiore è lo spirito dissacrante con cui il regista austriaco (qui al suo esordio al lungometraggio) riesce a raccontare le idiosincrasie di chi guarda, per connetterle con le stranezze più recondite dello spettatore. E anche quando nel finale rischia di far cozzare queste soluzioni con tematiche apparentemente incongrue – c’è una breve disamina sull’autocompiacimento di una certa borghesia, in stile Triangle of Sadness – il film rimane comunque coerente con gli obiettivi a cui ha votato tutti i suoi intrecci: che poi convergono, se ci pensiamo, attorno alla difficoltà, di Matthias, di essere semplicemente sé stesso.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
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