Homegrown, di Michael Premo

Smarca l’assalto a Capitol Hill da una prospettiva oggettiva, narrandolo dal punto di vista dei sovversivi. Anche se fatica a ritrarre con radicalità la rivolta. VENEZIA81. Settimana della Critica

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Il racconto mediatico dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 è sempre stato connotato di un ineffabile alone di oggettività. Tutti coloro che ne hanno documentato lo sviluppo, dai media tradizionali ai privati cittadini con le camere dei propri smartphone fino alle narrazioni giornalistiche sui social, hanno contribuito a traghettare l’avanzata dei trumpiani verso il Campidoglio in direzione di un unico, ed incontestabile concetto: l’avvento di un attacco unilaterale al sistema democratico statunitense. E nonostante Homegrown non abbia alcuna intenzione di mettere in discussione la gravità del fenomeno, né di offrire una sfumatura inedita ad un assalto che è stato recepito come un attacco non tanto ai principi fondativi della nazione, quanto alla Democrazia con la D maiuscola, ciò che il film desidera qui operare è un mero cambio di prospettiva: filtrando la questione attraverso un punto di vista più interno e meno “oggettivo” grazie all’assegnazione dello sguardo non ai media, ma agli stessi protagonisti della tragedia.

Nel corso del suo reportage, il documentarista Michael Premo segue le traiettorie di tre attivisti di destra, di provenienza e status sociale relativamente differenti, ma uniti da uno stesso obiettivo: preservare l’immagine (idealizzata) di un’America atavica, conservatrice, culla di principi libertari che le loro stesse azioni, paradossalmente, contribuiscono a mettere in questione. E nel raccontare il viaggio verso la capitale di questo trittico di “patrioti”, il filmmaker di Homegrown cerca di soggettivare un fatto così noto e conosciuto da chiunque, fino ad innervare il racconto delle prospettive interne dei tre esponenti dei Proud Boys.

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C’è da dire, però, che Homegrown, per quanto eccelli nel far emergere il tema fondante alla base della rivolta – ovvero una superficialità di pensiero da parte dei suoi facilmente malleabili promotori – così come nel diversificare le personalità dei protagonisti (uno di loro, ad esempio, si è avvicinato all’attivismo politico dopo la visione di Fahrenheit 9/11 di Michael Moore, non il film più repubblicano a cui si possa pensare) è pur vero che fatica a restituire un senso di radicalità o urgenza ad un evento così nodale e controverso della storia recente degli Stati Uniti. Quasi come se lo spirito reportistico del racconto si perdesse nel mare di esperienze (forse) fin troppo soggettive.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3
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