Mon inséparable, di Anne-Sophie Bailly

Filtra con audacia la simbiosi madre-figlio attraverso la lente della disabilità, senza mai cadere nella trappola del sensazionalismo o dell’eccesso di autocommiserazione. VENEZIA81. Orizzonti

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Basterebbe osservare la sequenza d’apertura di Mon inséparable per scandagliare tutte le istanze del film, sia “simboliche” che puramente tematiche. Due corpi apparentemente inseparabili, uno materno l’altro filiale, sprofondano all’unisono nelle acque della piscina, per poi “riemergere” insieme, quasi fossero un’entità unica. L’orizzonte di riferimento, se vogliamo, lo potremmo intendere come lo stato amniotico in cui si trova un neonato nel momento del parto, avvinghiato alla corporeità di colei che lo sta portando, dopo mesi di gestazione, finalmente alla luce. Mentre l’emersione in simultanea dall’acqua lascia già intendere la potenza di un legame atavico, destinato a trascendere qualsiasi emozione terrena, anche – e soprattutto – quando le grandi questioni della vita arriveranno a testarne l’integrità di fondo.

Parlare di Mon inséparable, significa perciò gettare luce sulla connessione simbiotica madre-figlio: Mona (Laure Calamy) ha votato la propria esistenza alla cura, fisica e soprattutto emotiva, del primogenito Joël (Charles Peccia) un ragazzo – ormai in procinto di diventare uomo – che ha dovuto confrontarsi quotidianamente con una disabilità muscolare derivata dall’ipotonia, percepita agli occhi della protagonista come un fattore estremamente totalizzante, tale da monopolizzare tutte le sue attenzioni materne, se non addirittura ogni suo schema di pensiero. Mona, di conseguenza, non ha mai avuto un momento per pensare a sé, o per lasciarsi andare a quell’appagamento del desiderio erotico a cui tanto agogna: una questione che verrà ulteriormente esacerbata dall’annuncio dell’imminente paternità del figlio, sulla cui capacità di crescere un bambino insieme alla sua compagna Océane (anche lei affetta da disabilità) la madre nutre seri dubbi, che la portano a mettere in discussione le sue scelte di vita, nonché la natura stessa del rapporto che la lega a Joël.

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Quel che consente a Mon inséparable di smarcarsi, almeno per buona parte del racconto, dalle trappole del sensazionalismo o dell’eccesso di autocommiserazione, è proprio la naturalezza con cui Anne-Sophie Bailly lega il processo di rivalutazione del rapporto simbiotico madre-figlio alla soppressione dei desideri/istinti carnali della protagonista. Tanto che l’erotismo, agli occhi della regista francese, diventa il viatico di espressione sì dei disagi e delle crisi vissute nel quotidiano da Mona, ma si dipana anche come lo strumento di rielaborazione del rapporto con il suo primogenito. È nei momenti di maggiore liberazione, quando si abbandona tra le braccia dell’amante Frank, che lei arriva a comprendere nel profondo i desideri di Joël, la necessità del giovane uomo di fregiarsi degli stessi diritti di coloro che non soffrono di disabilità, tra cui quello relativo alla paternità e al bisogno, quindi, di assumere l’immagine di genitore e marito, al di là del suo unico status di “figlio” costretto ad essere tutelato per l’eternità. E anche se, in alcuni momenti, il film tende a declinare il percorso di Mona nel vittimismo – rifiutando in parte la lezione che Lee Chang-dong ci ha insegnato all’inizio del Millennio con Oasis – difficilmente il tema della disabilità viene trattato dal cinema transalpino con questa sincerità.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
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