To Kill a Mongolian Horse, di Xiaoxuan Jiang

Un’interessante opera prima che lavora sui contrasti e sulle problematiche che dominano la società mongola di oggi, sospesa tra tradizione e contemporaneità. VENEZIA81. Giornate degli Autori

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Tra le sconfinate steppe innevate della Mongolia, Saina, un mandriano divorziato da qualche anno, è alle prese con alcune serie difficoltà che gli stanno rendendo, a poco a poco, la vita insostenibile. Tra clima avverso, siccità, quotidiane interruzioni di corrente e l’accumularsi di pesanti debiti di gioco procurati dal padre, l’uomo si vede costretto a rivedere completamente il suo tradizionale stile di vita. Comincia col dover vendere il proprio gregge di pecore, mantenendo soltanto qualche cavallo. L’uomo, per sopravvivere, si reinventa performer, occupandosi del suo ranch di giorno ed esibendosi a cavallo per il pubblico la notte. Ma la sua vita è ormai sull’orlo del baratro e sopravvivere diventerà sempre più complicato.

La giovane regista Xiaoxuan Jiang, originaria della Manciuria, presenta alle Giornate degli Autori un’interessante opera prima che lavora sui contrasti e sulle problematiche che dominano la società mongola di oggi, sospesa tra tradizione e innovazione, tra il sovrappopolamento della grande metropoli Ulaanbaatar e la solitudine ancestrale delle immense praterie incontaminate, abitate da piccole comunità autonome. Le contraddizioni della vita di Saina, tra lo sfarzo dei suoi show a cavallo e le difficoltà quotidiane nel gestire i suoi animali, sembrano essere l’inconsapevole riflesso di quelle di una nazione intera: la Mongolia. Un paese dove il sogno di queste piccole realtà, desiderose di portare avanti il proprio tradizionale stile di vita, si scontrano con il dover tenere il passo con le novità, tecnologiche e non, di un mondo che corre e non aspetta nessuno, con tutto ciò che ne consegue. Ne è un esempio la disgregazione dell’unità famigliare vissuta da Saina, un uomo alle prese con l’anacronismo di una rivendicazione costante della propria mascolinità e indipendenza. La crisi di potere da parte dell’uomo e del suo ruolo all’interno del contesto famigliare è sicuramente un tema di assoluta rilevanza, divenuto con gli anni centrale nella nuova cinematografia mongola. Non è un caso che questa problematica venga trattata anche in L’ultima luna di settembre, di Amarsaikhan Baljinnyam, un’altra interessante opera in grado di rappresentare con grande sensibilità gli sviluppi dell’attuale società mongola.

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Xiaoxuan Jiang trasmette questo stacco tra tradizione e contemporaneità, interiorità e globalizzazione, sviluppatasi in seno alla società mongola, anche attraverso una regia curata ed elegante che lavora su repentini contrasti formali d’inquadratura: gli intimi primi piani concentrati sulle difficoltà di un uomo, la cui crisi esistenziale viaggia in bilico tra presente e passato, si accompagnano a meravigliosi campi lunghi sulle maestose praterie asiatiche, nella cui illimitatezza il progresso e la contemporaneità risultano dei puntini insignificanti, destinati a perdersi di fronte all’immensità dell’orizzonte.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.8
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