No Sleep Till, di Alexandra Simpson

Un’opera paradossale, spesso statica, eppure in continuo movimento. Che abbraccia un”umanità sola, venata di romanticismo e inquietudine esistenziale. VENEZIA81. Settimana della Critica.

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Ogni cosa appare diversa se osservata attraverso la superficie dell’acqua – quasi trasformata, resa altra, trasfigurata per un momento dall’effetto della luce rifratta. Lo sa bene Alexandra Simpson, autrice di No Sleep Till. E lo sa bene anche il suo nutrito roster di personaggi: co-protagonisti mobili e più o meno silenziosi, guidati dalla mano della giovane cineasta al fatidico incontro con una piscina – chi per una nuotata, chi per un semplice tuffo, chi per trascorrere qualche piacevole istante con i piedi a mollo. In attesa.

Il film della regista franco-americana classe 1997, del resto, è un’opera liquida sorprendentemente paradossale. Un’opera fluida, votata al cambiamento, ritratta nel suo improvviso ed improbabile agitarsi e poi lasciata propagare, lentamente, a mo di increspatura. Eppure un’opera statica, delicata, di grande respiro; tassellata di lunghe e “pazienti” inquadrature, chiamate a regolare e (ri)comporre il disordinato flusso di immagini e volti posti su schermo.

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All’interno di un gioco di contrasti e ricercate collisioni semantiche, orchestrato dalla regista in qualità di svelamento di dinamiche e significati, No Sleep Till ci conduce faccia a faccia con il sublime. Ci invita a posare lo sguardo sul panorama costiero di una città della florida minacciata e sconquassata da un’allerta uragano. Ci sfida, ci blocca, accompagnata il nostro sguardo. Poi, progressivamente, si popola. Rivelando corpi, anime, sogni. Un microcosmo esistenziale rischiarato e momentaneamente rasserenato dai riflessi aranciati di un cielo che medita tempesta. E che invita all’azione.

Abitato da vecchi amici, cacciatori di uragani, famiglie e anziani lavoratori a rischio, il disegno di Simpson si colora così poco a poco di sfumature solo apparentemente riconoscibili; e sembra a più riprese poter sfiorare le velleità blockbuster di de Bont e Chung o rivitalizzare la satira sociale dell’ultimo, DiCaprio-centrico, McKay – tra i quali rimbalza, almeno a livello mainstream, senza intraprendere mai l’una o l’altra strada.

Scegliendo piuttosto di abbracciare l’idea di un’umanità sola, forse inevitabilmente venata tanto di romanticismo quanto di inquietudine. Un’umanità a tratti frustrata e fotografata in quel pulsante desiderio di “inversione” che, superata la paralisi, è libero di sprigionarsi in tutta la sua magnificenza. Leggero e inafferrabile come una raffica di vento.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.6
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