Families Like Ours, di Thomas Vinterberg

In un’ottima alternanza di campi lunghi e primi piani, scenari catastrofici e drammi intimi, il regista danese prosegue il proprio discorso sui fragili equilibri familiari. VENEZIA 81. Fuori Concorso.

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Già nel 2003, quando ancora giovane era già tra i nomi più discussi del cinema europeo dopo il clamore del suo precedente film, Festen, Thomas Vinterberg aveva costruito un mondo sconvolto dai cambiamenti climatici per raccontare il dramma di chi ci vive ne Le forze del destino. Non era andata benissimo. Sono passati più di vent’anni e, con il regista danese nuovamente all’apice dopo l’Oscar a Un altro giro nel 2021, l’ha fatto di nuovo con la serie Families Like Ours, presentata fuori concorso all’81ª edizione della Mostra del cinema di Venezia. Questa volta il risultato però è di altissimo livello.

Siamo nella Danimarca dei giorni nostri, quando il rischio di un’imminente inabissamento del paese legato all’innalzamento del mare, spinge il governo ad evacuare il paese, ridistribuendo i propri abitanti tra i vari paesi europei. Diverse famiglie sono costrette a separarsi, e così Laura, figlia di una coppia divorziata, dovrà decidere se andare con il padre e la sua nuova famiglia, che vive in condizioni agiate, o con la madre, che conduce una vita più modesta.

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Vinterberg dimostra di essere in stato di grazia, a partire dalla capacità di raccontare un contesto particolarmente complesso (come lo stesso sistema di ridistribuzione della popolazione), con grandissima semplicità ma estrema precisione, lasciando allo spettatore la possibilità di concentrarsi totalmente su quello che è il fulcro del racconto. Anche in questo caso, come già avvenuto in quasi tutti i film del cineasta (dallo stesso Festen a Riunione di famiglia, passando per Submarino e La comune), la tematica di fondo è il fragile equilibrio di qualsiasi famiglia, in cui le azioni di un singolo si riflettono su tutti gli altri componenti; quel gruppo umano costituito dalle persone più amate, ma che sono allo stesso tempo la causa delle più grandi sofferenze. In Families Like Ours, Laura non vuole più dipendere esclusivamente dalle decisioni dei più grandi, vuole essere lei stessa a scegliere. E Vinterberg nella prima metà è abilissimo a rappresentare il dramma di una ragazza, giovanissima sì, ma ormai adulta (e interpretata dall’ottima Amaryllis April August, esordiente in un cast in cui compaiono per il resto tutti gli attori feticcio del regista), che per la prima volta diventa ella stessa il perno degli equilibri familiari costituiti e, di conseguenza, colei che dovrà spezzarli. Nella seconda parte invece la serie si trasforma in una pericolosa avventura carica di tensione in giro per l’Europa, in cui diventa centrale anche la tematica dei rifugiati, ricordando a tratti Green Border di Agnieszka Holland.

Sullo sfondo, ma pesante come una spada di Damocle, sta la catastrofe climatica, con l’angoscia causata dalla consapevolezza dell’ormai prossima, vicina pochi decenni, sparizione dell’intera cultura di un popolo. Non ne esisteranno più la tradizione, la lingua, le lettere æ ø e å. Non ne esisterà più il territorio stesso. Il racconto funziona perfettamente sia quando affronta i personaggi e le loro relazioni, sia quando disegna il contesto in cui si muovono, con una costante alternanza di tensione e di commozione, di angoscia e delicatezza, tra primi piani e campi lunghissimi. Questi ultimi suonano come una vera e propria dichiarazione d’amore di Vinterberg verso la sua Danimarca e i suoi paesaggi, ripresi con lo sguardo di un innamorato che li osserva, magari per l’ultima volta, come nelle potentissime immagini che chiudono la strepitosa Families Like Ours.

 

 

La valutazione della serie di Sentieri Selvaggi
4.5
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