King Ivory, di John Swab

Fenomenale nel lavoro di messa in scena del traffico di fentanyl, raccontato in tutti i suoi gangli, come narco-poliziesco perde grinta nella costruzione dei personaggi. VENEZIA 81. Orizzonti Extra

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Centomila morti l’anno negli Stati Uniti a partire dal 2022, confermati purtroppo anche nei due anni successivi. Non sono i numeri del Covid-19 ma quelli dovuti alla diffusione del fentanyl, il più micidiale degli oppioidi dell’ultimo decennio, entrato prepotentemente anche nelle promesse elettorali dell’ultima campagna dei due candidati alla Casa Bianca. Una piaga sociale ed economica che finora al cinema e nella serialità aveva già trovato ampio spazio ma forse mai con l’impegno profuso da John Swab in questo King Ivory, uno dei diversi nomi, come ci informano le allarmistiche didascalie iniziali che provano a fare il resoconto attuale della situazione, con cui la droga è chiamata.

Dando forma narrativa ad un imponente lavoro di documentazione condotto sia attraverso ricerche che testimonianze dei vari soggetti coinvolti, il regista di Tulsa fa partire la vicenda proprio dalla cittadina dell’Oklahoma e la segue attraverso tre nuclei di scrittura diversi che andranno a scontrarsi mortalmente nel finale.

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Il detective della narcotici Layne West (James Badge Dale) ed il suo fidato collega, nel corso della varie operazioni legate allo smantellamento del traffico, s’imbattono in un camion abbandonato sull’autostrada. Dentro vi sono i corpi di 43 messicani, morti asfissiati mentre cercavano di superare illegalmente il confine. L’unico sopravvissuto alla mattanza, il giovane Diego, è stato cooptato dal connazionale Ramon (Michael Mando), capo del cartello della New Generation che quotidianamente introduce chili di fentanyl trattato oltreconfine, per aiutarlo a venderlo direttamente ai voraci clienti statunitensi. Sarà proprio questa tragedia a dare la spinta decisiva alla task-force impegnata a sgominare un commercio stratificatissimo che passa anche dalle mani del viscido George “Smiley” Greene (Ben Foster) e soprattutto è guidato, dalla prigione in cui è rinchiuso, dal minaccioso Holt (Graham Greene), boss dell’Indian Brotherhood.

King Ivory è un narco-poliziesco duro e puro che aggiorna solo l’oggetto e le dinamiche del fenomeno trattato mentre si accontenta di replicare i suoi quasi sempre rigidi meccanismi di scrittura. Se la pervasività di questo nuovo spaccio difficile da sgominare colpisce a pieno – anche se non è solo un “re-branding”, come fa riassumere con disonesto cinismo nel finale dal diabolico Holt -, più fiacca è la scissione del racconto che va a toccare, in tutti i suoi vertici, paradigmi iperclassici e poco credibili (un cazzutissimo padre poliziotto che affronta la dipendenza del figlio con una giustezza pedagogica da terapeuta SERT???).

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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