Harvest, di Athina Rachel Tsangari

La regista torna al Festival con un adattamento del romanzo di Jim Crace, in cui la natura diviene protagonista materica di una riflessione sull’industrializzazione poco efficace. VENEZIA81. Concorso.

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In concorso all’81° Mostra del cinema di Venezia, Athina Rachel Tsangari torna a distanza di quattordici anni da Attenberg col suo nuovo Harvest, adattamento del romanzo Il raccolto dell’autore britannico Jim Crace. Ambientato in un villaggio rurale senza nome in un tempo indefinito pre-industrializzazione, Harvest riporta al Lido Caleb Landry Jones nel ruolo di Walter Thirsk, nuovo membro, ancora non del tutto inseritosi, di una comunità di contadini che fa capo al signorotto Charles Kent, amico fraterno di Walter. Nell’arco di una settimana l’arrivo di tre forestieri (lo stesso Walter, che arriva dalla città, Phillip Earle, un cartografo ingaggiato per mappare le terre in previsione di delimitare i terreni coltivabili e Edmund Jordan, il nuovo padrone, cugino di Charles Kent, con ambizioni imprenditoriali) minacciano la tranquillità e la vita agricola degli abitanti, davanti ai quali si prefigura lo stravolgimento totale del loro habitat in nome di una sempre più incombente modernizzazione industriale che sostituirà mezzi di lavoro e lavoratori.

Walter osserva questo disfacimento passivamente, senza intervenire mai davvero per salvaguardare la sua comunità, ma preferendo piuttosto ricongiungersi in solitudine con l’elemento naturale, vero protagonista del film. Harvest infatti si presenta fin dall’inizio come un film materico, di cui della terra si sente l’odore, la consistenza, addirittura il sapore. Con Walter sgraniamo i semi lanciati nei campi, sentiamo le spighe che lambiscono la pelle, la frescura dell’acqua, la paglia che prude sotto ai vestiti, la viscosità del fango in cui è costantemente immerso. Ciò che lo distingue dagli altri paesani è la sua incrollabile fiducia in quella Madre Natura che verrà presto stravolta e sfruttata per interesse economico, e di cui lui solo sembra aver colto i segreti nascosti nel ciclo inarrestabile e imperituro della terra, nel ritornare perpetuo delle stagioni, che nessun marchingegno moderno può modificare. L’uomo dunque, per quanto ingegnoso e votato al progresso, dovrà sempre sottostare ai tempi del mondo e alle azioni degli eletti che ne realizzano la volontà.

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A metà tra il Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher e il Re Granchio di Zoppis/Rigo de Righi, Harvest esplora il rapporto mistico che Walter intrattiene con la natura, che la mdp di Athina Rachel Tsangari e la fotografia di Sean Price Williams rendono elemento primario e allegorico del film, da cui si dipana poi una vicenda che assume ben presto toni grotteschi, perdendo di efficacia. Tra rituali pagani attorno al fuoco, feste del raccolto e funghi lisergici, Harvest riafferma la necessaria riconnessione, spirituale e corporea, con una natura misterica e irriducibile che conserva ancora la salvezza. Unica e vera alma mater, la sola divinità alla quale votarsi.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.8
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Il voto dei lettori
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