Iddu, di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza

La storia della latitanza di Matteo Messina Denaro è rimodellata con la libertà di una rilettura che può rischiare anche il tradimento, ma che è un sano atto di coraggio. VENEZIA81. Concorso

-------------------------------------------------------
LA SCUOLA DI DOCUMENTARIO DI SENTIERI SELVAGGI

-------------------------------------------------------

Quando il piccolo Matteo deve affrontare il rito di iniziazione voluto dal padre, l’uccisione di un agnellino, non indietreggia come il fratello maggiore. Anzi, nel momento in cui affonda il coltello nella gola, sul suo volto si disegna un sorriso. Improvvisamente avvertiamo un brivido, come una specie di lampo oscuro. Una freddezza compiaciuta, crudele, come una sinistra fascinazione della morte. Ma forse è l’unica scena, in tutto Iddu, in cui avvertiamo l’essenza piena del male. Per il resto del film, questo Matteo Messina Denaro raccontato da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, è tutt’altro che un uomo di spietata determinazione. Più volte si percepisce qualcos’altro, non dico un dubbio o un ripensamento di tipo morale, ma una sottile insicurezza rispetto al proprio ruolo, una specie di inadeguatezza. Come nella scena in cui deve far fuori uno dei suoi corrieri: dà segni di nervosismo per tutta la serata, poi, a cose fatte, ritorna a casa e chiede al padre “perché proprio io?”. Oppure quando, una volta diventato il boss numero uno, non risponde ai ripetuti appelli alla guerra e alla violenza della sorella sanguinaria. Per non parlare poi di tutta la gestione della corrispondenza con Catello Palumbo.

È un Matteo Messina Denaro in qualche modo sospeso sul baratro, già “ingabbiato” e votato al declino, costretto nella depressione ripetitiva della sua latitanza, a quell’ora d’aria nell’angusto cortile della vedova che lo ospita e che batte a macchina i pizzini. Ma soprattutto un uomo incapace di maturare un’identità autonoma rispetto all’ingombrante figura paterna, quel “faro” la cui scomparsa sembra lasciarlo nella costernazione e nell’incertezza più totali. In fondo, il boss è rimasto un bambino, che non a caso si riflette ne ‘u pupu, L’Efebo di Selinunte, la statua greca conservata presso il museo di Castelvetrano: il vero e proprio oggetto magico che attraversa il film. E, continuando in questa direzione, si potrebbe leggere tutto Iddu come un film sulla disfatta della paternità. Padri tirannici, padri assenti, come lo stesso Matteo nei confronti del figlio mai riconosciuto, padri putativi melliflui e infidi, come il padrino di battesimo Palumbo. Anzi sarà proprio lo “spregevole” Palumbo la figura cardine di queste distorsioni patriarcali: mentre tesse la sua ragnatela intorno al figlioccio boss, crea un rapporto quasi paterno con l’agente interpretata da Daniela Marra, manda alla rovina suo genero, povero ingenuo, e condanna, come sommo contrappasso, suo nipote a crescere senza un padre. È questo personaggio machiavellico, losco e ridicolo, shakespeariano e caricaturale, “l’infame più infame della storia dell’infamità”, il vero protagonista di Iddu, quello che muove cose. E, difatti, se Elio Germano è molto controllato, quasi bloccato nella fissità di certi sguardi, Toni Servillo presta a Catello Palumbo tutta la sua arte, nella gamma infinita che va dall’istinto istrionico alla piena misura.

----------------------------
UNICINEMA QUADRIENNALE:SCARICA LA GUIDA COMPLETA!

----------------------------

Fatto sta che nella visione di Grassadonia e Piazza, la Sicilia è una terra in cui la linea genealogica è impazzita, i padri hanno abdicato e i figli hanno smarrito la rotta. La trasmissione è stata spezzata o meglio è stata inquinata dalle logiche malate del sopruso e del potere, quelle della mafia e delle istituzioni oscure e corrotte. Come sempre la loro scrittura rimodella il dato di realtà, la storia, con la forza dell’invenzione. Ma se in Sicilian Ghost Story la chiave fantastica era una specie di rivolta contro l’orrore della cronaca, qui la deformazione romanzesca piega verso il grottesco, in un’ironia che si fa sarcasmo e che disegna una galleria di maschere ottuse e inquietanti. Però non è un semplice ritorno a registri e schemi di certo cinema politico italiano. Perché lo sguardo di Grassadonia e Piazza ha un’originalità autentica, sa costruire la tensione nei momenti dell’azione, ma soprattutto gioca su una molteplicità di prospettive: un realismo di fondo che si coniuga a una specie di astrazione nella gestione degli spazi, del décor, dei costumi e dei colori, che si stratifica di simboli, di rimandi a un orizzonte mitico, ancestrale. Certo, a differenza del film precedente, non sembra esserci molto margine di sovversione. E qualcosa, ogni tanto, sembra andare verso l’eccesso, sfuggire dalle mani. Eppure in Iddu c’è la libertà di una rilettura, di un’interpretazione, di un pensiero che può rischiare anche il tradimento. Ma che è soprattutto un sano atto di coraggio.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
Sending
Il voto dei lettori
0 (0 voti)
----------------------------
SCUOLA DI CINEMA TRIENNALE: SCARICA LA GUIDA COMPLETA!

----------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative