Kjærlighet (Love), di Dag Johan Haugerud

Un film teorico che riflette sul contemporaneo, sulla fine della coppia canonica ed il piacere di un incontro fugace. Buoni gli assunti, fredda ed un po’ avvilente l’esposizione. VENEZIA81. Concorso

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Seconda parte di una trittico sull’amore dopo Sex, visto nella sezione Panorama di Berlino, Kjærlighet (Love) continua un discorso di revisione sull’amore ed i rapporti di coppia, che si concluderà con Sogno e chiuderà la trilogia. L’approccio trinitario alla materia non è cosa nuova. Già Henry Miller con Sexus/Plexus/Nexus aveva affrontato la pulsione erotica o la fine del desiderio coniugale in maniera esplosiva. E sul tema già Platone nel Simposio lasciava Erissimaco dissertare di amore volgare e spirituale. Quello del regista norvegese dunque, più che una novità, è la ricerca di un inedito punto di osservazione. Sceglie di affidare il suo sguardo ai due protagonisti Marianne e Tor, entrambi single impenitenti, che lavorano nel reparto di Urologia di un ospedale di Oslo, la prima come medico, il ragazzo come infermiere. E perlopiù si trovano a trattare problemi legati al basso ventre, luogo eccitante o ripugnante, e sempre vergognoso. La cronaca dura venti giorni di Agosto, ed è un trattato cerebrale che parte dall’idea di un corpo come campo di battaglia, e dalla malattia fisica arriva ad un parallelismo con le crisi di coppia, le promesse di matrimonio infrante, le avventure ed il sesso occasionale.

Il film sembra cavalcare una contraddizione in termini. Guarda l’impulso come un fatto razionale spinto dal crollo delle certezze, dalle bugie e dalla promiscuità, viene analizzato al pari di una cavia da laboratorio e contestualizzato nell’era di Grindr e Tinder, che più che strumenti di libertà rappresentano l’istituzione contemporanea della libidine, e quindi un freno, un ultimo apparato di controllo. Tanto l’argomento può essere interessante, quanto la forma scelta appare appesantita dai dialoghi senza sosta, frutto dell’ipotesi del sentimento figlio di un costrutto. Gravato dai sintomi, la malattia diventa più grave quando è vincolata e la spontaneità dell’attrazione repressa, quando non è priva di quelle gabbie dove la società preferisce classificarle. Un progetto teorico dunque, conversione visiva di un assunto accademico, freddo, trattenuto, fedele alla latitudine di provenienza. Tassonomia che dimentica l’irrazionale, l’imprevedibile, la follia di un bacio e di una carezza, la dolcezza e la passione, o prova a confonderle dentro un pacchetto di alternative, costruendo quel recinto che dice di voler distruggere. Gli orgasmi non lineari dei protagonisti, i loro comportamenti contraddittori, a volte poco professionali, offrono uno spunto di riflessione e revisione di architetture parentali obsolete, ma offrono una cura che ha una forte controindicazione, quella di lasciare il cuore in un deserto.

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La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.8
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Il voto dei lettori
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