Youth (Homecoming), di Wang Bing

La maestosa trilogia anticapitalista del regista cinese si chiude con un capitolo dall’ampio respiro, che riporta il discorso a un piano puramente umano. VENEZIA81. Concorso

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Dopo Youth (Spring) e Youth (Hard Times), Wang Bing chiude la sua trilogia con Youth (Homecoming), ancora una volta mettendo al centro del discorso le condizioni dei giovani operai tessili emigrati nella città di Zhili, a 100 km da Shanghai. Prima Cannes, poi Locarno e ora Venezia; il regista cinese ha voluto raggiungere un pubblico più vario possibile allargando la presentazione del suo colossale progetto a tre festival differenti in tre paesi diversi. Le riprese della trilogia si sono sviluppate dal 2014 al 2019 per un totale di 2600 ore di materiale che sono state condensate in questi tre capitoli. Youth (Homecoming) si concentra sul periodo delle vacanze di Capodanno, il momento in cui i laboratori tessili si svuotano e i lavoratori attendono con trepidazione lo stipendio per poter tornare finalmente a casa, almeno per qualche giorno. Dalle rive del fiume Yangtze alle montagne dello Yunnan, ognuno festeggia nella propria città natale secondo la tradizione, celebrando rituali di prosperità con la famiglia.

Operando con il consueto approccio immersivo, Wang Bing segue i vari personaggi con camera a mano azzerando del tutto ogni tipo di distanza fisica ed emotiva. Siamo nei laboratori, nelle abitazioni dei protagonisti, nel treno che li porta verso casa, nel pulmino che viaggia su strade accidentate. Siamo sempre presenti ma abbiamo costantemente l’impressione di non essere invisibili. La cinepresa del regista attira molti sguardi e a volte viene urtata, addirittura in una sequenza viene ricoperta di stelle filanti spray durante i festeggiamenti di un matrimonio. In un momento di intimità totale con una delle protagoniste che stava confidando il proprio disorientamento, il regista prende la parola e comunica direttamente con lei. A dimostrazione dell’enorme lavoro compiuto a camera spenta per entrare realmente in confidenza con i propri protagonisti. Un aspetto irrinunciabile del metodo di Wang Bing che fa della durata e della gestione dei tempi le sue colonne portanti.

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Se per qualcuno la vacanza è l’opportunità per sposarsi, per altri è il momento in cui porsi domande sul proprio domani, magari immaginando un futuro migliore. In certe zone della Cina i giovani lavorano duramente per mantenersi. Gli stipendi sono molto bassi, le giornate infinite e non c’è tempo per riposare. La società cinese ha ridotto la vita quotidiana di questi individui al solo lavoro, guadagnare (poco) è la sola e unica ambizione possibile. Nonostante i momenti di allegra convivialità che caratterizzano questo capitolo della trilogia, c’è un’atmosfera dolente ad avvolgere gli ambienti dei laboratori, delle strade della cittadina e dei treni affollati. Una malinconia persistente che non accenna a spegnersi e che il regista riporta in tutta la sua forza. Non cerca soluzioni, non tenta analisi sociopolitiche di nessun tipo, ma si limita a restituire con onestà delle immagini drammatiche arrivate sullo schermo cinematografico in modo miracoloso. La speranza c’è e sono i ragazzi e le ragazze di cui Wang Bing riporta scrupolosamente nomi, cognomi, gradi di parentela e paese di nascita. Non devono essere semplici volti nella folla, la loro esistenza è testimonianza inestimabile e il regista ha il dovere di sottolinearlo. Il maestoso lavoro anticapitalista di Wang Bing si chiude con un capitolo ancora più ambizioso, che riporta il discorso a un piano puramente umano.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
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