Labirinti, di Giulio Donato

L’esordio di Giulio Donato è sospeso nel tempo magico delle prese di coscienza estive, in cui però le divinità del nostro inconscio ci chiamano a sé. VENEZIA81 Giornate degli autori – Confronti

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L’ultima volta che mi sono confessato, a 13 anni circa, il parroco del mio paese nel profondo Sud d’Italia mi disse, tra le altre cose, che vedeva in me un esempio di enoteista, ovvero un fedele che pur riconoscendo la superiorità di un dio a cui rivolgere il proprio culto, non esclude l’esistenza di ulteriori divinità (il mio prete fece, ricordo ancora, il nome di Jimi Hendrix al riguardo). Mi viene in mente quella straordinaria battuta di Ricky Gervais: esistono circa tremila divinità venerate dall’uomo – la differenza tra voi credenti e noi atei è che voi non credete a 2999 dei, noi non crediamo giusto ad uno in più.
Ambientato in diverse estati di paese in una Calabria che sembra ferma nel tempo ma in cui si parla di whatsapp, smartphone e 5G, l’esordio di Giulio Donato è un film che racconta con stupefacente precisione quell’agosto in cui ognuno di noi ha scoperto l’esistenza della propria divinità personale, da porre in parallelo – e magari prima o poi sostituire – a quelle religiose: ai santi della processione di San Francesco di Paola, portati in processione con impalcature altissime, il protagonista adolescente (anche lui Francesco) inizia ad affiancare la visione di un essere mitologico originato dai suoi sogni – ad occhi aperti o chiusi –, dalle allucinazioni che sembra provocargli la lettura di un libro scovato per caso, appunto “Labirinti”. Questa creatura ancestrale che fluttua liquida tra i corridoi del labirinto mentale di Francesco (nella realtà, quello bellissimo di Villa Pisani a Strà) prende via via le sembianze anatomiche umane, man mano che il ragazzo inizia a fare i conti con i messaggi che il proprio inconscio va mandandogli – non solo quelli di natura sessuale, ma anche il desiderio di lasciare il villaggio, andare a Roma a studiare, a vedere le cose. Ma dai posti dove viene Francesco, queste “strane idee” non vengono mai viste di buon’occhio, a parlare troppo italiano e non unicamente dialetto, a restare a casa la sera a leggere libri invece di andare a cacciare cinghiali, si finisce per essere additati come diversi.

Giulio Donato segue la storia di un’amicizia, quella tra Francesco e Mimmo, il quale invece a lasciare la vita di campagna fatta di impennate con la moto, birre e sigarette, non ci pensa proprio, e ricerca un’astrazione che è insieme figlia di una tradizione tutta italiana (e che ritrovi nei primi piani insistiti, nelle inquadrature frontali, nei frammenti da realismo magico) e chiaro legame con certe tendenze internazionali del racconto di un’educazione sentimentale: la magia del suo film è che potrebbe tranquillamente essere seguito senza dialoghi, i personaggi si capiscono spesso solo con uno sguardo, le situazioni assumono un valore universale che le immagini bastano a spiegare da sé, come le riprese aeree che trasformano in labirinto inestricabile anche l’alternanza di mare, montagna, tetti di case e strade di paese, da cui Francesco potrà evadere solo dopo una sorta di violento rituale di passaggio, un tradimento inevitabile.
Tiene tutto insieme il finale con i due amici che si ritrovano da adulti tra i corridoi di un museo della preistoria, quasi a certificare la loro provenienza da una dimensione ancestrale, esistenze sospese in un tempo sempre uguale, sotto teca, ancora una volta senza parole, in cui tutte le epoche e le estati e le notti coesistono in un unico istante, in fondo alla grotta-labirinto.

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La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
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