PerSo 2024 – Intervista esclusiva a Erika Rossi

La regista ha presentato in anteprima mondiale Noi siamo gli errori che permettono la vostra intelligenza, che prosegue la sua ricerca sull’esperienza basagliana a Trieste. Ecco la nostra intervista

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Noi siamo gli errori che permettono la vostra intelligenza è il nuovo film di Erika Rossi, presentato in anteprima mondiale al 10° PerSo – Perugia Social Film Festival, a cui partecipa in concorso. In continuità con i precedenti lavori della regista, che già in passato ha affrontato l’esperienza della rivoluzione basagliana legata al tema della sanità mentale, concentrandosi in particolare sulle realtà nate a Trieste sulla sua scia, il lungometraggio racconta, attraverso l’archivio, il lavoro di Claudio Misculin, che, a partire dagli insegnamenti dello stesso Franco Basaglia e da Franco Rotelli, ha creato l’Accademia della Follia. Si tratta di una compagnia teatrale i cui membri sono “matti di mestiere e attori per vocazione”, creata a Trieste negli anni 70, e che tutt’oggi costituisce una realtà unica nel suo genere. Misculin rivendica quindi attraverso le sue opere il valore della “follia” insita in ciascuno di noi, sfruttando quella dei suoi attori per mettere in scena storie con modalità sperimentali esperienze di vita di chi ha sofferto di disturbi mentali. Noi siamo gli errori che permettono la vostra intelligenza racconta però come, dopo l’esperienza quarantennale di Claudio Misculin e la sua scomparsa improvvisa avvenuta nel 2019, l’Accademia della Follia continui il proprio lavoro, restando ancora oggi un’esperienza unica a livello internazionale.

Cosa significa per te avere l’occasione di presentare in anteprima mondiale questo film al PerSo, in un’edizione che ha deciso di dedicare un focus proprio sulla rivoluzione basagliana?

Da quando mi occupo di documentario la tematica della salute mentale e la storia basagliana sono i miei temi ricorrenti. Con il PerSo c’era già stata un’epifania anni fa, quando il festival ospitava il premio Solinas. Io ero finalista con il mio lavoro precedente, La città che cura, anch’esso riguardante una realtà della mia città messa in piedi dagli eredi di Basaglia. Io avevo presentato qui il teaser e già allora, nel 2017, mi sembrava un festival molto ricco e secondo me adesso è cresciuto ulteriormente. Presentare qui questo film è un po’ come la ciliegina sulla torta, soprattutto nel 2024, centenario della nascita di Basaglia, a cui anche il festival ha dedicato una sezione. Avere il mio film in concorso qui è come un segno.

Come hai detto, è un film in continuità con i tuoi precedenti lavori. Come sei arrivata in contatto con la storia di Claudio Misculin?

Durante il mio percorso ho collaborato più volte con Claudio e con l’Accademia della Follia. Raccontando gli spazi dell’ex manicomio e l’evoluzione delle realtà di Trieste, l’ho sempre coinvolto in alcuni frammenti dei miei precedenti film. Conoscevo lui e il suo lavoro, la sua fatica quotidiana, e ho sempre pensato che fosse degna di essere raccontata. In casa, a Trieste, lui è sempre stato percepito come una figura borderline, senza mai ricevere il credito che meritava, non solo per il progetto in sé, ma per ciò che lui ha fatto con la compagnia, girando per mezza Europa e per il Sud America. Trieste è una città poco attenta, così come tutta la regione. Ad esempio lui è più noto in Emilia Romagna. Nel 2018 un regista iraniano ha già girato un documentario sulla sua figura. Forse perché lo stesso Basaglia è più conosciuto all’estero che da noi. Claudio è morto improvvisamente nel 2019, e in quell’anno l’Accademia ha creato uno spettacolo omaggio dedicato alla sua storia. Io l’ho documentato con un piccolo lavoro televisivo. Per me è stato il segno che mi ha convinto a raccontarlo attraverso l’archivio. Ho iniziato a lavorarci nel 2020 e ho capito da subito che c’era un enorme sforzo per portare avanti il progetto dopo la sua scomparsa; è stato uno sprono per me, una realtà peraltro condotta oggi da sole donne, come Cinzia Quintiliani, che è sempre stata l’organizzatrice della compagnia, o la drammaturga Angela Pianca (entrambe co-fondatrici della compagnia), o ancora Sarah Taylor, la coreografa. Loro si sono guardate negli occhi e hanno deciso di proseguire con il progetto, mettendoci tantissima energia per tenere insieme l’Accademia della Follia come vera e propria compagnia, non come un semplice corso di teatro. Quindi la mia intenzione era mettere insieme la storia di Claudio e l’oggi, mostrando questo sforzo.

Nel film c’è un momento in cui a Misculin viene chiesto se fosse difficile comunicare con i “matti” e lui risponde: “Per me no”. Per voi com’è stato cercare di dare un ordine ad un materiale che ritrae un lavoro che trae la sua forma dalla “follia”?

È stato complesso mettere ordine a questa mole di archivio, che racconta come Claudio cercasse di comunicare la sua visione con modalità sempre dirompenti. Per me era fondamentale che dal film si evincesse il suo messaggio e che si passasse dalla sua storia a quella della compagnia, capendone il senso che stava nella mente sia di Claudio che dei suoi mentori, Basaglia e Rotelli. Ho lavorato sia cronologicamente, raccontando l’evoluzione del progetto, che per temi, sottolineando l’importanza che Claudio dava al corpo, fondamentale per interpretare tanto il malessere delle persone tout court, quanto quello dei personaggi delle opere, che molto spesso erano la rappresentazione delle reali esperienze degli attori o di altre persone.

 

Erika Rossi

Quanto film di questo tipo possono aiutare a creare un dibattito attorno ad un tema come la psichiatria, che a livello pubblico spesso invece si arena ancor su questioni superficiali come il bonus psicologo, senza essere affrontato nella sua complessità?

Io credo che film simili, come Kripton ad esempio, possano aiutare il dibattito inserendo degli elementi di complessità che solitamente mancano. Bisognerebbe parlare non di misure minime che non risolvono per nulla la situazione, ma di una visione, un sostegno ai servizi che riesca ad inquadrare al meglio lo stato delle cose relativo alla salute mentale. Se i giovani soffrono di crisi d’ansia o d’identità, perché la società che gli stiamo consegnando li spinge in questa condizione, non sarà il bonus psicologo ad aiutarli. Servono operatori formati, percorsi terapeutici progettuali, come diceva appunto Claudio, o come direbbe qualsiasi psicoterapeuta che sa davvero di cosa parla. Serve mettere in atto strategie attive, spazi di socialità in cui esprimersi e poter fare cose insieme. Servirebbero dei percorsi individuali, come effettivamente avveniva a Trieste fino a qualche tempo fa, con servizi che erano guardati a livello internazionale come fiore all’occhiello. Oggi la nostra governance ha un generale disinteresse nei confronti della sanità, soprattutto in regioni come la mia, in cui avviene una riduzione del pubblico in favore del privato. Nel caso della salute mentale nello specifico, c’è quasi un attacco nei confronti della visione basagliana, con uno smantellamento costante per cui i servizi sono lasciati a se stessi, anche perché i dirigenti storici oggi non ci sono più.

Lavorando con l’archivio, quanto il repertorio è impiegato per sostenere un’idea già individuata e quanto invece è il film a mettersi a servizio dell’archivio stesso?

Lavorare con l’archivio per me è molto stimolante. Il potere dell’immagine nei termini di risonanza o associazione inizia a lavorare mentre ti ci immergi. Quando ci sono delle epifanie, sono quei momenti in cui l’archivio viene decontestualizzato e riutilizzato. Non è tanto il caso di questo film, in cui il repertorio racconta ciò che non ho fatto raccontare alle voci dei testimoni. Sarebbe stato bello far parlare solo quelle immagini, ma le interviste servivano perché ci fosse una comprensione completa di quanto mostrato. Chiaramente però è l’archivio che permette di creare dei nuovi percorsi, senza mai rispettare il punto di partenza; avviene una decostruzione dell’idea iniziale, in favore di una nuova.

I ragazzi della compagnia hanno già visto il film?

Ancora no, sarebbero dovuti venire qui al PerSo, ma sono tornati oggi dalla Colombia, dove hanno presentato il loro nuovo spettacolo, Quelli di Basaglia a 180°, in spagnolo, e ora partiranno per presentarlo a Lecco. Quindi o lo vedremo insieme in altre occasioni, oppure lo vedranno con me quando sarà presentato a gennaio al Trieste Film Festival. Saranno loro a scegliere quando vederlo.

Hai intenzione di continuare a lavorare sull’esperienza basagliana in futuro?

Sulla rivoluzione basagliana ho già fatto molto e non so se ci tornerò ancora. Sicuramente mi interessa il tema della cura, a cui mi avvicino spontaneamente. Adesso sto lavorando ad un progetto legato ad un percorso teatrale dei cosiddetti “grandi anziani”, coloro che vivono in RSA.

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