PerSo 2024 – Intervista esclusiva a Marta Basso e Tito Puglielli per Che ore sono

I registi sono in concorso con il loro lungometraggio d’esordio, che racconta l’esperienza di tre persone in una comunità psichiatrica di Palermo. Ecco la nostra intervista

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Che ore sono è il lungometraggio d’esordio di Marta Basso e Tito Puglielli, prodotto a conclusione del loro percorso presso il Centro Sperimentale di Cinematografia nel corso di documentario e in concorso per il PerSo Award al 10° Perugia Social Film Festival. Il film racconta tre vite che si intrecciano all’interno di una comunità psichiatrica di Palermo. Giuseppe è un appassionato di musica rock e apparecchi teconologici che non vuole invecchiare. Ursula, innamorata, non riesce a prendersi cura della persona amata a causa della propria malattia. Bianca, comunista appassionata, vorrebbe tornare al mondo esterno in cui l’aspettano la sua vita e i suoi figli. I tre protagonisti sono mostrati non negli eccessi delle loro difficoltà, bensì nella ciclicità delle loro giornate, impegnati a raccontare la propria storia per interrompere la lunga attesa del momento in cui saranno liberi di andarsene. Un film che non vuole suscitare una facile compassione nello spettatore verso Bianca, Ursula e Giuseppe, i quali, distanti dall’essere semplici strumenti attraverso cui veicolare un tema, sono dei personaggi a tutto tondo con cui il pubblico entra in sintonia, tra momenti più divertenti e altri malinconici.

Marta Basso e Tito Puglielli

Cosa significa per voi poter viaggiare con il vostro primo lungometraggio e vivere esperienze come quella di questi giorni al PerSo – Perugia Social Film Festival?

Marta Basso: Per noi è stata un’esperienza emozionante, si sentiva l’affetto del pubblico nei confronti della storia e dei protagonisti. La cosa che ci colpisce ogni volta, anche in questo caso, è che si crea un momento di scambio post proiezione con alcune persone che hanno percepito di poter raccontare liberamente la propria storia a partire dall’incontro con il film. Molto spesso erano molto emozionate, colpite. La possibilità di potersi aprire rispetto a storie anche dolorose legate alla psichiatria grazie ad uno spazio di condivisione creato proprio da Che ore sono è prezioso, e ne sono grata, sono rari gli spazi pubblici sicuri in cui farlo.

Tito Puglielli: Per noi è un bellissimo regalo vedere che il film non viene percepito come schiacciato su un tema, quello della psichiatria, ma che anzi ci si affeziona alle storie e alle traiettorie di vita che abbiamo deciso di raccontare. Ogni volta che noi lo rivediamo, come successo a partire dalla prima proiezione in pubblico, impariamo a rileggere il film, a comprenderlo meglio grazie alle reazioni di chi lo sta guardando per la prima volta.

Come vi siete approcciati ai soggetti del vostro documentario e come avete deciso cosa raccontare e le modalità con cui volevate farlo?

TP: Il primo rec in assoluto è stato il 21 dicembre 2021 e abbiamo girato per praticamente un anno. Giuseppe già il primo giorno interagiva autonomamente con la macchina da presa, quindi non è stata né un’intervista né un tentativo di osservazione inizialmente. C’è stato un gioco, anche perché Giuseppe era molto appassionato, oltre che esperto, di tecnologia, quindi era molto interessato proprio alla macchina, all’oggetto. E a partire da questa curiosità, abbiamo capito che le nostre idee non potevano entrare là dentro e non essere intaccate dall’incontro con i protagonisti. Giuseppe, già dal primo momento, ha rotto completamente il dispositivo, decidendo lui stesso per noi, che ci siamo adattati a lui. Si è trattato quindi di osservare o piuttosto inseguire le situazioni.

MB: Girando documentari l’idea iniziale cambia sempre, perché entri nelle vite delle persone e non puoi prevedere tutto. Giuseppe era un ulteriore regista, sceglieva lui il quadro da mostrare e la modalità attraverso cui farlo. Quindi l’unica decisione nostra credo che sia stata quella di restare in ascolto, in apertura rispetto agli impulsi che ci arrivavano, senza una rigidità preimpostata. Abbiamo sviluppato la relazione senza camera prima di iniziare le riprese. Poi è subentrata la macchina e noi ci posizionavamo e cambiavamo postura anche in base alle necessità delle persone che avevamo davanti, alle loro modalità di raccontarsi, ai loro momenti della giornata. Abbiamo deciso di prestarci alla loro volontà di autonarrarsi, tanto che i tre protagonisti sono proprio coloro che hanno manifestato maggiormente la voglia di aprirsi. Per noi la cosa più importante era fare un film con loro, non su di loro.

In un lavoro simile, è possibile raccontare tutto quello di cui siete testimoni? Voi in particolare, avete stabilito una distanza oltre cui non intendevate andare?

TP: Mi piacerebbe che esistesse una risposta a questa domanda, a cosa è lecito raccontare e cosa no, se esistesse probabilmente il nostro mestiere sarebbe superfluo. In realtà è una continua negoziazione tra la tua sensibilità personale e le persone con cui stai lavorando. A noi è capitato a volte di premere stop quando ci veniva esplicitamente chiesto o quando semplicemente ritenevamo fosse giusto fermarci e non invadere. Però è un terreno vivo e mobile, in cui ognuno si deve prendere la responsabilità e anche forse il peso delle scelte.

MB: Al di là del banale consenso che ti può dare una persona filmata, capisci quando devi limitarti conoscendo al meglio il soggetto. Se si crea una relazione, sai leggere quello che ti sta accadendo a fianco e come si sta sentendo veramente quella persona accanto a te. A volte pensavamo di non dover filmare semplicemente perché avremmo rotto un patto di fiducia. Non tutto è davvero necessario per un film, al contrario di quello che molti documentaristi pensano. Devi saper leggere dove posizionarti, perché non sei un essere trasparente e ho un’incidenza su quello che succede. Poi lo stesso tipo di pensiero lo fai anche in montaggio. Noi non abbiamo lasciato fuori molto, ma un momento cruciale che riguardava Bianca abbiamo deciso di tagliarlo dopo la sua morte. Sarebbe mancata la sua opinione, o quantomeno un confronto diretto con lei.

Per Che ore sono, quale è stata la fase in cui avete stabilito o compreso definitivamente quello che volevate raccontare: la scrittura, le riprese o il montaggio?

TP: Di sicuro durante la scrittura, almeno in una prima fase, non avendo idea di che cosa potrà accadere, uno prova ad immaginare come la realtà possa evolversi sulla base dei propri desideri e delle proprie proiezioni. È un errore previsto, in un certo senso, ma molto utile per capire che film si vuole fare. Poi però si continua a scrivere filmando e montando.

MB: Forse ho scritto di più metaforicamente durante la produzione e nei momenti in cui rivedevo il girato. Perché era un momento di passaggio in cui lasciavo completamente andare le proiezioni della scrittura, dello sviluppo. Mi scontravo con la realtà dei fatti, con le emozioni, con tutto quello che succedeva per la prima volta dopo aver girato, la prima visione è sempre cruciale per capire dove si sta andando. Poi il montaggio è stato una messa in forma, ma devo dire che non ha stravolto più di tanto il nostro lavoro.

Come mai avete scelto il tema del disagio psichico per il vostro primo lungometraggio?

MB: E’ nato perché a inizio anno ci siamo resi conto che entrambi avevamo questo desiderio per motivi diversi. Nel mio caso, perché io ho vissuto come paziente quando ero più piccola la psichiatria e quindi avevo desiderio di raccontarla perché ci sono passata. Conscia di non essere pronta a scavare in quello che ho passato io, desideravo però poter raccontare questo mondo ancora avvolto da stigma e sovradeterminazione.

TP: Anche per me il disagio psichico è parte di chi sono in un certo modo. Mia nonna è morta entrando e uscendo da un manicomio prima che chiudessero, ovviamente io non l’ho mai conosciuta, e la sua malattia per come viene raccontata in famiglia è qualcosa che ancora porta con sé delle tracce, che arrivano a me per interposta persona attraverso mia madre. Quindi con Marta ci siamo trovati, ci siamo presi per mano ed abbiamo iniziato questo percorso.

MB: Sì, abbiamo fatto una ricerca sul campo a Palermo su alcune comunità di diversa natura (private, pubbliche, eccetera) e ci siamo resi conto di voler raccontare chi vive un’esperienza all’interno di uno di questi tipi di istituzione. Poi durante i sopralluoghi abbiamo conosciuto Ursula, Giuseppe e Bianca e là c’è stato un colpo di fulmine, un riconoscersi e un trovarsi che di sicuro parte da nostre ferite del passato. Con Tito c’è anche una volontà politica condivisa, perché non era scontato che andassimo d’accordo e che avessimo la stessa visione di come raccontare su questa storia. Entrambi abbiamo attraversato e vediamo tutt’ora la necessità di raccontare le istituzioni totali, quali certi mondi psichiatrici ancora esistenti, che non curano, ma anzi, ammalano, e cancellano le persone destinandole ad essere pazienti per sempre.

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