Le Giornate del Cinema Muto. Incontro con Deborah Landis

La celebre costumista statunitense, presente a Pordenone, ci ha raccontato qualcosa in più della sua carriera e di una professione spesso poco conosciuta e poco considerata

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Deborah Nadoolman Landis è una delle costumiste più influenti e celebrate nel mondo del cinema. Con una carriera che spazia da cult come Animal House e I Blues Brothers fino a blockbuster come I Predatori dell’Arca Perduta e al videoclip della canzone Thriller, Landis ha lasciato un segno indelebile nel panorama cinematografico. I suoi costumi, iconici e memorabili, hanno contribuito a definire personaggi e storie che sono entrati nell’immaginario collettivo.

Ieri mattina l’abbiamo incontrata alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone e abbiamo avuto modo di approfondire insieme a lei alcuni aspetti di un mondo spesso poco conosciuto e poco considerato. Ecco cosa ci ha raccontato.

 

Come ci si approccia al costume design? Questo approccio si è modificato nel tempo?

C’è da sempre un malinteso. Il costume viene sempre considerato un qualcosa di decorativo. È un equivoco. Perché sappiamo, che i film siano muti o sonori, che il cinema è innanzitutto una ricerca “letteraria”. Ci basiamo sulla storia, sulla narrazione. Nella mia carriera, mi hanno sempre chiesto: “Sei capace di cucire? No, ma so leggere” rispondo sempre. Noi dobbiamo prima leggere la sceneggiatura. Poi, dopo averlo letto e assorbito, è allora che abbiamo la nostra prima conversazione con il regista. Nel tempo tutto è rimasto quasi sempre lo stesso, sono gli strumenti che sono cambiati. Iniziamo dalla storia, dal racconto, e poi parliamo con il regista. E parlare con DeMille o Griffith, è lo stesso che parlare con Guillermo del Toro o Quentin Tarantino o Greta Gerwig. È la stessa conversazione. Cosa vedi? Cosa vuoi? Come sarà? Come posso aiutarti? Come posso aiutarti a raccontare questa storia? Del resto se prendi la stessa sceneggiatura e la dai a Wes Anderson, avrà lo stesso aspetto che se la dai a qualcun altro? È la visione di una persona e questo non è cambiato. Il regista, o lo showrunner per la televisione, sono al centro e tutti rispondiamo a quello che ci dicono. Tutto è stato pensato, non ci sono scelte casuali, ma sono scelte per raccontare una storia. Il costume, certo, era ed è davvero l’inizio della costruzione della celebrità.

Dunque è una questione di progressiva costruzione?

Considera questo. La prima cosa che faccio nelle mie lezioni è assicurarmi che gli studenti capiscano che il costume si basa prima di tutto sulla condizione umana. E così la prima cosa che faccio è scegliere tre o quattro persone. Li faccio alzare in piedi. Devono dirmi il numero di telefono fisso di loro madre. Devono dirmi l’incrocio dove sono cresciuti. Devono dirmi se hanno fratelli e sorelle. E se hanno condiviso i vestiti. E poi devono dirmi tutto sui loro vestiti. Quando li hanno comprati, quanto hanno pagato. Chiedo loro dei calzini, delle scarpe, dei jeans. Qual è il loro paio di jeans preferito? Quanti ne hanno? Poi passiamo allo smalto, ai tatuaggi, ai piercing. Chiedo dei loro capelli. E lo faccio perché voglio far capire loro quanto siamo complicati, e che portiamo la nostra identità con noi; e quando incontriamo persone in un film, le incontriamo nel mezzo della loro vita. E qual è la cosa più importante in un film? Cosa vuole di più un regista? Un regista vuole che tu creda. Devi credere che le persone nel film siano reali.

Tu e i tuoi colleghi vi ispirate ancora al cinema muto?

Oh mio Dio, sì. Oh mio Dio, sì. Perché mi sento come se stessimo sulle spalle dei brillanti designer che ci hanno preceduto. Il costume design nel cinema muto ha contribuito più o meno alla fondazione del costume design per sempre. E sai, la definizione di designer è di fatto quella di qualcuno che sta sempre imparando. Abbiamo fame di imparare. Non vedo mai un film da cui non imparo qualcosa.

Esiste un costume, un film o una collaborazione, tra i tanti a cui hai lavorato, che hai percepito come un punto di svolta per la tua carriera? 

No, nel corso della mia carriera mi sono sentita come se fossi uno spettatore. Ero uno spettatore. Osservavo. Non siamo noi a creare le icone. Il pubblico crea le icone. Facciamo del nostro meglio per servire la narrativa. Lavoriamo sempre al cento per cento, che si tratti di merda o di un classico. E non conosciamo la differenza. Non ne abbiamo idea. Te lo giuro. Non lo sappiamo. Non lo sapevo. I predatori dell’arca perduta non è stata una grande esperienza per me in quel momento. Quando io e John siamo andati a Chicago per fare The Blues Brothers, Steven (Spielberg) mi ha chiamato e mi ha detto, “stiamo per fare un film, I predatori dell’arca perduta” Ha detto “è un B-movie, non spenderemo molti soldi. George Lucas lo produrrà”. E io ho risposto “va bene, lo faremo”. Chi poteva sapere cosa sarebbe diventato?

E cosa puoi dirci di Michael Jackson?

Era molto magro e molto piccolo. Era un genio. Veniva a casa nostra a guardare i cartoni animati con John. Aveva una grande Rolls Royce bianca e veniva e parcheggiava davanti a casa nostra. Io andavo a letto e uscivo dalla camera in pigiama per dire “John, Michael deve tornare a casa adesso. Noi dobbiamo dormire”. L’ho conosciuto personalmente prima che come artista sul palco. Ed era estremamente silenzioso. Poi ci ha invitato al Madison Square Garden, l’arena più grande di New York. Avevo poco più di 30 anni e io sono di New York, quindi non sono impressionata mai da nessuno. Ma quando siamo entrati alMadison Square Garden, tutto esaurito, Michael era sul palco e c’erano circa cento persone insieme a lui. Eppure l’unica persona che guardavi era lui. Non so come facesse. Aveva come un raggio traente. Come se tu fossi costretto a guardarlo. È stato incredibile. Incredibile davvero. Non me lo aspettavo.

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