SPECIALE TODD PHILLIPS – Attorno ad un cinema di maschere

E se la rinuncia di Arthur a Joker fosse solo l’ultima maschera che cade in un cinema tutto performativo, che da anni racconta la vetrinizzazione di sé e la messa in crisi di quel racconto “dopato”?

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Cala il sipario, i ruoli si dismettono, le cornici vanno in pezzi. “Non voglio più essere Joker”, dice Arthur Fleck alla fine di Folie A Deux. Ed in quel momento, a cadere, è anche l’intero sistema di segni che finora ha retto il film.

O forse l’ultimo film di Todd Phillips non fa altro che svelarsi, portare a vivo le sue linee, i suoi ragionamenti, raccontando, parallelamente, un’altra questione centrale del contemporaneo, quella che si lega al nostro rapporto bulimico con le immagini, che pare renderci difficoltoso leggere le immagini o, meglio ancora, metterle in relazione tra di loro, ragionare di tradizioni, motivi ricorrenti, immaginari.

Bisogna forse solo mettere le cose in prospettiva, reimparare, ancora, sempre, a guardare.

Qualcuno, certo, c’ha provato: non si contano, ad esempio, gli studi che hanno provato a leggere Joker come l’emblema del contemporaneo maschio fragile, iconica simbolica della comunità INCEL. E così Arthur si costruisce un ruolo addosso, una parte, quella di Joker, che diviene un filtro per reggere le pressioni del mondo, per raccontarsi, per far sentire la sua voce e farsi vedere da un’umanità che, ancora, sembra aver perso la capacità di osservare.

 

La maschera del gioco

Si coglie dunque del Joker l’elemento performativo che però, a ben vedere, è stata una vera e propria costante, insieme alla riflessione sull’evoluzione della mascolinità dell’immaginario di Phillips.

Probabilmente fin dal suo Starsky & Hutch, film vertiginoso e stranissimo che sceglie di rifare al cinema la celebre serie poliziesca anni ’70 mantenendone il palinsesto (quasi a vista, con tanto di inserti funk e transizioni tutte “televisive”) ma ripensandone le linee in pieno stile Frat Pack, come una parodia demenziale di quel mondo. Ma lo sguardo di Phillips è fermo, serio e quasi racconta il respiro del suo cinema che verrà: in primis c’è, ad esempio, il “peso” sulla scena di Ben Stiller ed Owen Wilson, che “interpretano” Starsky e Hutch ma che sono, comunque, sempre loro, riconoscibili sotto le rispettive maschere, con un loro passato, con un loro repertorio, con un rapporto noto con il loro pubblico. Sono loro, forse, i primi “performer” del cinema di Phillips, anche se l’atmosfera generale è ancora leggera, mancano gli elementi apocalittici che entreranno in scena vent’anni dopo. In questo momento quei totem sono soprattutto delle schegge impazzite che si divertono a giocare con le nostre percezioni (chi sono coloro che stiamo guardando?). Eppure anche attraverso di loro si ragiona di eroismo, di rappresentazione, di machismo, se è vero che, a distanza di anni, la sequenza centrale del film pare ancora quella delle due ragazze che, abbordate dai due poliziotti, preferiscono baciarsi fra di loro che concedersi ai due protagonisti.

Il teatro della borghesia

Riattraversando il cinema di Phillips su questa linea non stupisce allora se quello della trilogia di Una Notte Da Leoni sia, almeno in apparenza, il racconto del ritorno alla rispettabilità borghese dei tre protagonisti, che nel fuori campo indotto dal Ruflin svelano quanto il loro status sia una facciata che maschera uno spirito ancora caotico, fanciullesco, immaturo. I film si muovono dunque nel tentativo di far riacquistare ai personaggi quella pace, quella rispettabilità, quella quiete inizialmente perduta, ma tutto pare inutile. Non solo perché il pack, il gruppo di amici, cercato, voluto soprattutto dallo scapestrato Alan è sempre più uno stato mentale, qualcosa di indivisibile, ma anche perché, a ben vedere, anche il loro mondo sembra essere una costruzione performativa permanente da cui pare impossibile “scappare”. Lo racconta, più o meno apertamente, l’ultimo capitolo, che torna a Las Vegas, città- performance per eccellenza e che sul finale svela la sua natura di giocoso loop: non è cambiato nulla, ci sarà sempre un’amnesia che svelerà la natura profonda dei quattro protagonisti.

Pare uno strano tentativo di “contenere” i discorsi di quel cinema, che nel tempo hanno preso una piega pericolosa, sono usciti dai confini sicuri del cinema e sono esondati nella vita vera, potenziato, ovvio, dagli strumenti social.

L’esorcismo impossibile

Tre anni dopo Una notte da leoni 3 esce infatti Trafficanti, forse il film più abissale di Todd Phillips, quello che, almeno fino a Folie A Deux, ha raccontato il suo immaginario senza filtri. Quella dei giovani David Packouz e Efraim Deveroli pare in effetti una storia esemplare in questo senso. Non solo perché il loro sembra il racconto di formazione “virile” per eccellenza, quello di due uomini in cerca di potere e riconoscimento attraverso, non a caso, il potere simbolico delle armi ed il tentativo di fingersi dei trafficanti internazionali, ma anche perché la loro storia svela tutti i limiti di una bromance annichilita dagli ideali tossici dell’allora nascente cultura dell’Alpha Male, quella dell’uomo carismatico, potente, quella dei social guru, ben raccontato dal personaggio di Jonah Hill (ma nel film, emblematico, c’è anche un cameo di Dan Blizerian, miliardario, campione di poker, proto Andrew Tate), sempre più sulla cresta ma anche sempre più solo. Anch’essa, va da sé, è null’altro che una vetrinizzazione, una performance che però conduce ad un vicolo cieco.

Perché l’esorcismo è impossibile. E allora, forse tanto vale assecondare il caos, come in ossequio allo spirito punk da cui proviene lo stesso Phillips. Conviene, forse, cambiare area, spostarsi dagli incorreggibili Yes Men agli Incel, dare loro un’icona in cui rispecchiarsi con la mano destra ma condannarli con la sinistra, lucrare su ciò che vogliono vedere, ipocritamente (ma il punk è anche ipocrita, a suo modo), rendere Joker il paladino di quella fragilità e farlo divenire protagonista di due film volutamente costipati, tra l’ossequioso omaggio a Scorsese ed un musical mai davvero libero di esprimersi pienamente.  Conviene guidarli, senza che se ne accorgano, verso ciò che devono vedere e magari sperare che, almeno uno di loro, si ribelli e cambi il gioco di forze, decida di vedere da altre parti.

 

L’inganno e lo sguardo

Ecco, forse quell’unico spettatore si potrebbe accorgere che la prima performance, quella cardine, che ha retto tutte le altre, è proprio quella di Phillips, regista di un cinema leggero, iperpop, almeno agli inizi, ma pop e demenziale come quello di Landis, di Dante, dunque solido, colto, straripante di film in film, che in Starsky & Hutch flirta con certe vertigini da thriller, che Scorsese lo aveva già incontrato, prima di Joker,  in Trafficanti, che tra voce off e respiro da Mafia movie pare il suo Godfellas e che in Una notte da leoni III, l’unico senza espediente del Rufin, tra l’altro (come a volersi raccontare, davvero per la prima volta, senza filtri) firma il suo action definitivo retto, sul finale, tutto dagli stunt.

Ma forse la sua è una vittoria di Pirro, amara come un pezzo di certo punk. Bisogna vedere il disegno d’insieme, anche solo tornare indietro e osservare ancora certe immagini, bisogna, ancora, sapere dove guardare. Forse un’azione troppo marcata, complessa, per tempi così tanto accelerati.

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