Arcipelago 15 – Come back, Sud Africa

Sta viaggiando per l’Italia (da Bologna a Roma, dove è inserita all’interno di Arcipelago, per poi raggiungere Bolzano, Trieste, Torino, Milano e Siena) una rassegna che, con 7 lungometraggi e 12 cortometraggi, pone lo sguardo sul cinema sudafricano, e sulle sue molteplici stratificazioni, degli ultimi dieci anni, più un tuffo nel passato con il capolavoro del newyorkese Lionel Rogosin Come back, Africa!, del 1959

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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“Dumèla, Sud Africa!”. Buongiorno, Sud Africa! A quella che Nelson Maldela definì, in occasione della fine dell’apartheid e delle prime elezioni libere, nel 1994, la “nazione arcobaleno” alcune importanti realtà del cinema italiano (festival, cineteche, filmclub) dedicano ampio spazio. Sta infatti viaggiando per l’Italia (da Bologna a Roma, dove è inserita all’interno di Arcipelago, fino al 24, per poi raggiungere nelle prossime settimane Bolzano, Trieste, Torino, Milano e, a novembre, Siena) una rassegna (a cura di Antonio Falduto, Alberto Iannuzzi e Stefano Martina) che, con sette lungometraggi e dodici cortometraggi, pone lo sguardo sul cinema sudafricano, e sulle sue molteplici stratificazioni, degli ultimi dieci anni, più un tuffo nel passato con il capolavoro del newyorkese Lionel Rogosin Come back, Africa!, del 1959. Non si può non ripartire da quel film girato in clandestinità per le strade di Johannesburg, pietra miliare del cinema poetico-politico contemporaneo, opera monumentale che ci ri-guarda, urlo senza tempo contro ogni forma di repressione. È un documento straziante che vive nelle improvvisazioni, nei gesti colti in inquadrature nel segno della durata, di un montaggio tagliente, di un bianconero scultoreo da cui sorgono i corpi, le masse in cammino, i luoghi del dolore e della resistenza. Con Come back, Africa! Rogosin testimonia la tragedia dell’apartheid con uno sguardo al tempo stesso realistico e visionario, attento al dettaglio e alla performance, aderendo sempre più al dramma vissuto dal protagonista Zachariah, alla sua erranza infinita nei luoghi della segregazione.

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Con negli occhi il film di Rogosin ci si può incamminare alla scoperta del nuovo cinema sudafricano, l’unica fra tutte le cinematografie di quel continente a (im)porsi oggi con una politica d’industria e d’autore in grado di superare i confini e conquistare le platee internazionali, e non solo quelle dei festival. Il premio Oscar come migliore film straniero a Tsotsi di Gavin Hood è lì a testimoniarlo. Ma è un film come Drum, opera prima di lungometraggio di Zola Maseko, ambientato negli anni Cinquanta dell’apartheid più duro, a Sophiatown, che spinge il cinema sudafricano verso indispensabili spazi della contaminazione, della memoria. Lavorando sulla verità che le immagini producono, Maseko ci fa credere alla finzione, dentro la quale ri-trovare necessari elementi sociali e politici, ovvero la lotta contro la discriminazione razziale. L’indagine di un reporter nero e della redazione del giornale per il quale lavora, una testata mitica e militante come fu quella del Drum, per svelare i soprusi cui era sottoposta in ogni istante la popolazione sudafricana nera, è narrata con stile appassionato e incalzante, che trae complicità dal miglior cinema americano di denuncia. Complicità, mai copia forzata. Così come naturale è l’aderire, nella scena della festa danzante, nell’accenno alla canzone di Miriam Makeba, a Come back, Africa! Ancora e sempre. Al lungometraggio Maseko è giunto dopo alcuni importanti lavori brevi, come The foreigner (1997), che, nel raccontare l’amicizia fra due neri, un bambino di strada e un immigrato da una nazione confinante, mette in scena argomenti forti come il razzismo

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tra africani e le guerre di sopravvivenza a Johannesburg.

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Ma nel nuovo cinema sudafricano (che ha in Aryan Kaganof un geniale artista visivo sperimentale, dalla lunga filmografia, purtroppo assente dalla rassegna) si inscrivono anche altri percorsi della contaminazione, veri e propri crash estetici come nel caso di Bunny Chow (2006) di John Barker, commedia dalla camera a mano insistita in una Johannesburg multi-etnica, e di Forgiveness (2004) di Ian Gabriel, ch si confronta con il tema del perdono nel Sudafrica d’oggi, star Arnold Vosloo. E si incontrano oggetti preziosi come quelli creati dal regista e produttore Teboho Mahlatsi, dal serial in tre stagioni Yizo Yizo al cortometraggio, che fu premiato alla Mostra di Venezia, Portrait of a young man drowning (1999). Cinema della lotta per la sopravvivenza in un territorio e dello sradicamento da una terra, quello di Mahlatsi. Fatto di visionarietà, sguardo frammentato e rapsodico, esplosioni cromatiche, per una immersione nel centro e nelle periferie, sempre in strati urbani da penetrare, abitati da personaggi allucinati che con i loro gesti, le loro derive dicono la complessa quotidianità del vivere e del morire nel Sudafrica del cambiamento e delle sue profonde contraddizioni.

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