SCONFINAMENTI – I morti camminano (ancora)! Ovvero: il cinema ‘post-playstation’

Il cine-videogioco cannibale – di cui “Resident Evil” è, per ora, il manifesto – è embrione ancora lontano dalla finitezza: non può far altro che cercare la propria identità lungo i territori della ‘intergenericità’ adottando un incedere narrativo che sempre più spesso somiglia a una stratificazione di livelli (di difficoltà)

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Il Cinema (almeno parzialmente) sta agonizzando? Forse è già morto. Eppure cammina; e, come una creatura romeriana, si aggira sospinto da un irrefrenabile istinto famelico, attratto da qualsiasi cosa rechi in sé un alito di vita; passando/rimanendo dalle parti del videogame (e per questo, continuando a esporsi a quelle ‘radiazioni’ che invero lo hanno zombificato), per spingersi fino all’estrema ratio del cannibalismo. Certo cinema, per (soprav)vivere, ha cominciato a cibarsi anche di se stesso. Lo si poteva intuire già all’epoca di “Super Mario Bros”, quando la prima – dichiarata – fusione cronenberghiana tra videogame e film aveva prodotto curiosi risultati paratestuali. Allora, erano suggestioni alla “Blade Runner” e alla “Jurassick Park” a farsi decifrare dallo spettatore, stimolandone (almeno nelle intenzioni) un avvicinamento a un territorio de facto pionieristico (quello, appunto, del cine-game). La mutagenesi aveva cominciato a produrre i propri effetti e la sua evoluzione/involuzione da lì in poi sarebbe stata scandita da “Street Fighter”, “Mortal Combat”, “Lara Croft – Tomb Raider”, “Final Fantasy”, o da vere e proprie trattazioni metacinematografiche tipo “Pronti a morire” ed “eXistenZ” (che pure diegeticamente era un video-cine-gioco). Perché se è ormai chiaro che «il videogame è una forma organica di narrazione che, desunta dal cinema d’azione, è stata poi ad esso restituita dopo un processo di affinamento ed estremizzazione» (G. Manzoli), in luogo di un qualsivoglia giudizio sulle pellicole summenzionate, potremmo proporre una provocazione relativa a un fenomeno in itinere; fenomeno che potrebbe rivelarsi di ‘cesura’ per la storia della Settima Arte, alla stregua della diffusione del sonoro.
Il cinema ‘post-playstation’ – di cui “Resident Evil” è, per ora, legittimo manifesto nonché ultimo esempio – essendo tuttora in una fase di lento adattamento al gusto di un pubblico più abituato ai tasti di un joy-pad che ai piaceri della sala, è embrione ancora lontano dalla finitezza: non può far altro che cercare la propria identità lungo gli scoscesi territori della ‘intergenericità’ – veicolata superficialmente quasi sempre dall’action movie, proprio perché il gioco è anzitutto agire –, adottando altresì un incedere narrativo che sempre più spesso somiglia a una stratificazione di livelli (di difficoltà), con tanto di power up e boss finali. E visto che, per dirla alla McLuhan, «il medium è metafora attiva», il cinema che vuole videoludicamente integrarsi deve sopperire alla mancanza di una consolle tasti-munita. L’escamotage, dopo l’iniziale (ri)definizione estetica sancita dall’(ab)uso dell’effetto speciale, sembra quello dell’iperbole delle sensazioni, dell’evocazione di formule conosciute e di passati fasti (un citazionismo più o meno funzionale), o il tendere alla tipizzazione spinta dei personaggi. E’ il sogno di un’interattività che, al cinema, appare però lontanissima. Il problema è capire quanto questa involuzione dei contenuti (banalizzati anche al fine di renderli più facilmente fruibili nel marasma di sensazioni che l’innovazione tecnica ha portato con sé) sia solo fisiologica – proprio come quella registratasi nei primi anni ‘30 -, o se sia definitivamente il caso di lasciare la chimera dell’interattività fuori dal multiplex.

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