VENEZIA 65 – "Jay", di Francis Xavier Pasion (Orizzonti)

Jay, di Francis Xavier PasionDa una terra troppo spesso trascurata dal punto di vista della distribuzione, le Filippine, l'esordio alla regia di Pasion, vincitore del Cinemalaya Independent Film Festival 2008, cerca di illustrare il trattamento del dolore nella civiltà mediatica: nel classico gioco della simulazione, il backstage della sofferenza ripresa ad arte non è meno veritiero di quella sofferenza, né meno esplicativo sulla buona vecchia elasticità della natura umana. GALLERIA FOTOGRAFICA

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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Jay, di Francis Xavier PasionJay, ritratto di figlio e fratello modello, insegnante tanto d’inglese quanto di dottrina cristiana (le sue riviste porno nel cassetto vengono perdonate – perché è gay ma “riesce a non farlo trasparire troppo”, come osserva una collega) è stato brutalmente assassinato: ce lo racconta un giovane reporter dal fare soavemente nazista (Baron Geisler), che porta lo stesso nome del defunto e lavora per l’ennesimo reality del dolore. Il gioco è dall’inizio piuttosto scoperto: sono subito piuttosto sospetti le ingenue felicità domestiche, la figura della sorellina che sogna di diventare una starlette (il reality ha infine conquistato la terra intera – non c’è che da augurarsi, come rimedio, un’apocalisse di proporzioni gigantesche! – e infesta anche le Filippine melanconiche, i cieli grigi e immensi, quella natura che da un istante all’altro si rivolta, come quando seppellisce le case nel magma); si alternano gli esiti del girato definitivo, opportunamente montato, del reporter e del suo operatore sul lutto della famiglia e della comunità di Jay, allo svelamento di come sono stati artigianalmente creati, reiterati, limati, fino a dimostrare che il backstage della sofferenza ripresa ad arte non è meno veritiero di quella sofferenza, né meno esplicativo sulla buona vecchia elasticità della natura umana: non c’è che un passo dallo strazio privo di controllo a un perverso progressivo adattamento. Subito il film (di Pasion) finge di catapultarci fin nella bocca del dolore: ma ben presto indietreggia per spiare il protagonista: il tempo – lo scorrere dei minuti in cui assistiamo alla rapida sparizione, dissoluzione dei momenti di possibile dolore, dentro l’obiettivo, e per sempre anche fuori. Sono identici questi familiari sofferenti, plasmabili comunque come bambini, e la piccola troupe che assalta il fortino del lutto, ufficialmente per fare giustizia e chiarezza sulla morte del ragazzo, ovviamente per costruire un copione avvincente sul fatto di cronaca. Ci vogliono alcuni minuti perché il rito arcaico dei pulcini, posati sulla bara da una parente, perché ogni beccata sia una puntura nella coscienza del killer, si scopra ai nostri occhi l’ennesima simulazione richiesta ai non incolpevoli complici, a questi attori improvvisati ingoiati prima dal dolore reale, poi – altrettanto – da quello simulato; e un solo istante, perché la poesia del gesto muti in farsa (l’operatore che si appoggia alla bara, il coperchio della bara che cade ghigliottinando il pulcino, cartoni animati insanguinati).

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L’esasperante presenza della rete televisiva fin nelle maglie del lutto, sul tavolo da obitorio, diventa sempre più marginale rispetto alla fame con cui i protagonisti possono ormai vivere il loro dolore essenzialmente soltanto nel mimarlo di fronte a un pubblico televisivo, ancora solo virtuale; e desta angoscia la facilità con cui la madre, sinceramente disperata, muta in prefica da show di prima serata, che si dà perfino il trucco ed esige da se stessa una migliore interpretazione. Ad ogni istante non sappiamo se sentirci offesi per la facilità con cui costoro si lasciano avvicinare, storditi per la rapidità con cui il dolore immediato e quello rappresentato si sovrappongono nella ripetizione, sino a confondersi per sempre, o indignati di fronte all’idea che in fondo la simulazione, ogni espressione di dolore quando viene ripetuta per la telecamera e per un pubblico, è più vera del vero, e soddisfa, più nutriente che nel momento in cui era incosciente e incontrollata.

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