L'ultimo sorriso di James Coburn

E' morto pochi mesi dopo Rod Steiger, il destino ha voluto che la deflagrazione finale di “Giù la testa” li cogliesse quasi nello stesso tempo ora, quasi a voler contraddire e, perché no, confermare la fatalità impazzita del filmico.

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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Siamo colpiti dalla notizia della morte di James Coburn in maniera del tutto inaspettata. Lo amavamo molto, e soprattutto ne ammiravamo tantissimo la straordinaria capacità di ricostruirsi anno dopo anno un'incredibile giovinezza artistica. E' morto pochi mesi dopo Rod Steiger, il destino ha voluto che la deflagrazione finale di Giù la testa li cogliesse quasi nello stesso tempo ora, quasi a voler contraddire e, perché no, confermare la fatalità impazzita del filmico. Era nato nel 1928 in Nebraska, i primi studi scolastici, poi il desiderio di recitare, partendo naturalmente dai primi passi. Fatto sta comunque che Coburn il successo lo ha conosciuto quasi subito. Prima con lo strepitoso Albero della vendetta (1959) di Boetticher, grande riflessione sul destino, sulla colpa, sulla moralità dell'azione in cui interpreta il ruolo di un impassibile fuorilegge, scartando però di almeno due livelli rispetto allo stereotipo incarnato in quegli anni dal pistolero classico. Alto, sinuoso ed elegante nei movimenti, capace di elettrizzare il set con una presenza scenica che si faceva notare immediatamente. E' con i Magnifici sette che però Coburn conoscerà il successo internazionale, quello che si porterà appresso in tutti gli anni a venire. Quello di Sturges è uno dei grandi western degli anni '60, invecchiato peraltro molto bene, meno maturo e profondo di quello di un Boetticher o di un Davies, ma sicuramente in grado di restituire la flagranza composita del cinema popolare di una volta. Il sorriso di Coburn (marchio di automatico riconoscimento) è incredibile, in grado di instillare simpatia, identificazione, ma soprattutto attaccamento alle sorti del suo personaggio. Poi, un altro grande western, stavolta di quel mostro di Sam Pechinpah, (Sierra Charriba, 1965), in cui Coburn, affiancato da Heston e Harris, appare improvvisamente scaraventato all'interno di un set in cui si stava compiendo la lenta rinascita del western, a partire proprio dalle sue ceneri. Con Il nostro agente Flint (1965 ) di Daniel Mann arriviamo addirittura alla caricatura del personaggio centrale di quegli anni, James Bond, con un Coburn sottile e partecipe in una improvvisazione caricaturale in cui si muove perfettamente a suo agio, consapevole che le leggi del cinema obbligano ad un costante rivestimento di abiti nuovi, contestualizzati in scenari diversi. Il film ebbe un grande successo, un seguito apparve così come d'obbligo (A noi piace Flint, 1966). Ma con il western i conti non si possono liquidare così facilmente. Si torna allora a Sam Pechinpah con Pat Garrett e Billy the Kid, uno dei capolavori recitativi dell'attore che nell'occasione interpreta lo sceriffo Garrett. Immerso nello scenario mozzafiato di Pechinpah, Coburn si muove in mezzo al dolce ritmo del leit motiv del film di Bob Dylan, ci appare improvvisamente come la quintessenza dell'attore americano, capace di trasformare un qualsiasi atto in cinema, uno sguardo in festa di mimica e di identificazione con il personaggio interpretato.

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Lo troviamo poi spalleggiato da Hackman in Stringi e denti e vai di Brooks, in cui si cala perfettamente nello spirito dell'opera, una massacrante corsa al successo fraseggiata dai ricordi di un set (quello western) in cui il classico è ormai solo un ricordo. Prima di giungere alla seconda parta della sua carriera, è doveroso ricordare l'ennesima avventura con Peckinpah che l'attore visse ne La croce di ferro, in cui interpretò il sergente Steiner, alle prese con le atrocità della guerra. Non è un film contro la guerra quest'ultimo, non è nemmeno un film per la guerra: è puro cinema, di quel tipo che oggi non si fa quasi più, ed è fascinazione stregata e violenta per un atto insensato filmato in modo delirante e grandissimo. Tra gli anni '80 e i '90 Coburn non si dette mai per vinto, ma continuò a centellinare precisamente le offerte che gli piovevano da più parti, concentrandosi sempre su quelle opere che lo affascinavano maggiormente. Ecco allora La seconda guerra civile americana di Joe Dante, ma ancor di più forse Affliction (1996), in cui l'attore conquistò il primo e sospirato Oscar. Quella di Schrader è una delle opere più belle e folgoranti degli ultimi anni, Nolte è eccezionale, Coburn nella parte del padre violento che appare per lo più in sgranati flashback è semplicemente immenso. Grosso, ingombrante, gonfiato dall'alcool, incapace di escogitare delle reazioni pacate e tranquille, sempre sottomesso ai fumi di una droga che un po' alla volta lo annienta. Riusciamo ancora a intravedere l'ombra del vecchio sorriso, ma è un sorriso di morte, un'apertura al ricordo che Schrader filma come fosse davvero l'ultima. E poi Giù la testa, tornando indietro al 1971. La capitolazione definitiva, il sigaro acceso ad un candelotto di dinamite, lo scoppio/nascita di un'amicizia sancita dalla morte. Prima di questa però un ultimo sorriso. Quello ironico, malinconico, ebbro di un attore che ci mancherà molto. "E adesso noi?".

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