VENEZIA 67 – “Notre étrangère”, di Sarah Bouyain (Giornate degli autori)

notre etrangere

Lo sguardo della giovane regista è d’amore nei confronti del paesaggio africano, della sua gente e delle sue tradizioni. Il percorso della protagonista Amy è una sorta di viaggio al contrario, verso il natio Burkina Faso, per far luce sul proprio passato ma anche e soprattutto per tentare di conquistare una identità presente, che è uno dei temi forti di questo 67° Festival di Venezia

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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notre etrangereNostri stranieri recita il titolo del film d’esordio della regista francoafricana Sarah Bouyan. Quindi il sentimento dello sradicamento, il sentirsi straniero sempre ed ovunque, il non riconoscersi mai a “casa”. Insomma, il dramma profondo di ogni immigrazione. La storia è quella di una ragazza africana che vive dall’età di otto anni a Parigi presso una famiglia adottiva e che improvvisamente sente il forte impulso di ritrovare la sua vera madre, di ricostruire con fatica le sue vere radici. È così che inizia una sorta di viaggio al contrario, verso il natio Burkina Faso, per far luce sul proprio passato ma anche e soprattutto per tentare di conquistare una identità presente, che è uno dei temi forti di questo 67° Festival di Venezia.
Lo sguardo della giovane regista è pieno d’amore nei confronti del paesaggio africano, della sua gente e delle sue tradizioni: le inquadrature strette e claustrofobiche di Parigi lasciano spazio all’esplosione di colore e di luce che si avverte quando Amy si addentra nelle strade del suo vecchio villaggio o nella casa della vecchia zia. Ma, alla lunga, risulta anche essere uno sguardo un po’ troppo ristretto, miope, eccessivamente controllato e “pensato” nel suo slancio umanista. I personaggi non superano mai la soglia di una caratterizzazione prestabilita e si fa fatica ad avvertire una vera evoluzione, che semmai viene suggerita per mezzo di elementi esterni (Amy che con rabbia scaglia per terra i suoi abiti africani con cui non si sente a suo agio, preferendo i suoi comodi abiti europei). La scelta poi di farci vedere, con brevi inserti per tutto l’arco della narrazione, la vera madre di Amy che vive e lavora proprio a Parigi all’insaputa della figlia, appesantisce il già alto tasso metaforico dell’opera. Resta comunque il piacere vero di scoprire il cinema dove è difficile pensare che approdi e resta soprattutto la sensazione forte di un film che trova la sua importanza già nel fatto di esserci, di riuscire a “testimoniare”.
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