CANNES 64 – “Bonsai”, di Cristian Jimenez (Un certain regard)


Un labirinto letterario, con piste che si sovrappongono, narratori che si confondono, e quant'altro. Eppure, fino a un istante prima pensavamo di stare vedendo un filmetto tardo-adolescenziale qualsiasi. È una delle ragioni del fascino inatteso di Bonsai

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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Un labirinto letterario, con piste che si sovrappongono, narratori che si confondono, e quant'altro. Eppure, fino a un istante prima pensavamo di stare vedendo un filmetto tardo-adolescenziale qualsiasi, con amorazzi e ragazzotti che qualche anno fa non ci saremmo meravigliati di vedere interpretati da Gabbriellini o Marco Cocci. È una delle ragioni del fascino inatteso di Bonsai, costruito intorno al ventenne Julio, al suo primo amore Emilia e alla sua vita di otto anni dopo – quando un famoso scrittore gli propone di redigere un suo manoscritto.
Quel lavoro salterà, ma Julio comincerà a scrivere un suo romanzo facendo credere all'amante che, in realtà, si tratta ancora del manoscritto commissionatogli. Manco a dirlo, sarà materiale autobiografico – e gli incroci tra la vita di Julio e quella di otto anni prima si faranno sempre più folti, e assecondati da un continuo andirivieni tra i due piani del racconto. Jimenez capisce bene che l'infittirsi degli spunti narrativi rendono necessaria una regia “in contropiede”, vale a dire una direzione tranquilla, posata e cristallina che sappia reggere il complicarsi delle corrispondenze e degli incroci. Perciò, da un lato azzecca una piacevole leggerezza di toni, anche grazie a una buona dose di umorismo; dall'altro, distanzia visivamente lo spettatore da ciò che mostra, tenendosi lontano dai personaggi, relegandoli il più delle volte al profilo o alla frontalità, e riducendo al minimo i movimenti sia della macchina sia degli attori.
Appena percettibilmente, il corso della storia (o delle storie) viene infarcito da dettagli a volte solo anodini (la vicina che si impiccia) e a volte cruciali: Jimenez è bravo a confondere gli uni e gli altri, a far sì che non ci curiamo più di ricostruire il groviglio, per consegnarci invece al dipanarsi automatico della matassa letteraria. Lo stesso Julio capirà di essere non tanto un autore letterario, ma lui stesso una casella vuota generata da un incrocio di scritture. E imparerà, fondamentalmente, a “sedersi”, ad aderire alla posizione a cui è destinato dentro questo labirinto letterario che il film stesso non esita a qualificare esplicitamente come “proustiano”.
“Un racconto è un bonsai”, ci si dice, e questo film lascia moltiplicare le ramificazioni, lascia penetrare a fondo le radici – ma solo per lasciarci sedere e riposare sotto le foglie verdi. Bonsai si apre precisamente su questa immagine, su fronde maestose agitate dal vento, con le parole del regista che ci rassicurano: “Alla fine del film, Emilia morirà. Ma la cosa importante, sarà che Julio è vivo”. La cosa importante non è il progredire della storia (bruciata in partenza), né il groviglio di scritture, ma quel bagliore che da esse scaturisce, e che chiamiamo “presente”.

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