TORINO 29 – "Ghosted", di Craig Viveiros (Concorso)
Ghosted si pone nel più classico dei filoni carcerari fatto di colpa, redenzione e senso di comunità, azzeccando anche alcune scelte: specialmente sottolineando l’assenza del “fuori”; se non c’è un “fuori” è evidente che non potrà esserci un “dopo”. La linea del rigore, però, non è perseguita con la giusta determinazione da Viveiros che non resiste alla tentazione di aggiungere e aggiungere, vanificando tutto
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Nelle intenzioni, dunque, il film si pone nel più classico dei filoni carcerari (quello di “Le ali della libertà” per intenderci) fatto di colpa, redenzione e senso di comunità. Nella prima parte sembra anche perseguire questi obiettivi con un certo rigore, azzeccando anche alcune scelte: specialmente sottolineando l’assenza del “fuori”. Lo spettatore infatti, ancor più del detenuto, non ha contatti con l’esterno, nulla di quello che esiste fuori ci viene mostrato: come detto, la moglie di Jack lo lascia per telefono e lui si affretta a staccare le foto dalla cella. La madre di Paul è una presenza fantomatica alla quale finge di telefonare solo perché spinto da Jack. Evidente, allora, che se non c’è un “fuori” non potrà esserci un “dopo”. Le uniche immagini che vengono dal “fuori” sono quelle del passato, del rimorso. Nessun futuro dunque, solo l’analisi dolorosa ed impietosa della colpa.
Purtroppo, però, questa linea di scelte rigorose non è perseguita dal regista con la giusta determinazione. Viveiros non resiste, infatti, alla tentazione di aggiungere e aggiungere e nella seconda parte infarcisce l’opera di scene oniriche sopra le righe (la metafora dell’acqua come soffocamento nella colpa) o violente (in stile Refn) completamente scollegate dallo stile scelto per l’intera pellicola.
Soprattutto, però, appare completamente inutile la costruzione di un finale “a sorpresa” che non aggiunge assolutamente nulla a quella che era (o poteva essere) la costruzione psicologica dei personaggi.