Dalla casa di produzione al set: George Clooney/Steven Soderbergh

Collaboratori, amici e produttori in società, George Clooney e Steven Soderbergh sono ormai una persona sola. Lo conferma l'esordio da regista di Clooney, "Confessioni di una mente pericolosa", profondamente influenzato dallo stile di Soderbergh, diventato ormai una prassi comune di tanto nuovo cinema d'autore hollywoodiano di questi ultimi anni

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E' difficile scrivere di un regista alla sua opera prima, parlare di uno stile o, addirittura, di una poetica. Più che difficile, verrebbe da dire inutile. Il caso di George Clooney, però, sfugge alla regola, presentandosi come un interessante esperimento a metà tra l'ispirazione personale e l'influenza più o meno diretta dell'amico, collaboratore e, in questo caso, produttore Steven Soderbergh. Confessioni di una mente pericolosa, esordio dietro la macchina da presa di Clooney, nasce, infatti, sotto la stella della fiorente collaborazione tra l'attore e l'ex autore indipendente di Sesso, bugie e videotape, da tempo ormai entrato nel gotha del nuovo cinema d'autore hollywoodiano. I due hanno fondato una casa di produzione, la "Section Eight", hanno lavorato insieme in tre film (Out of Sight, 1998, Ocean's Eleven, 2001, Solaris, 2002) e, stando alle loro dichiarazioni, continueranno a farlo per tutti le loro opere a venire, a partire dall'annunciato Ocean's Twelve.


La presenza di Clooney nella filmografia di Soderbergh segna addirittura un momento di svolta, dopo il successo da autore indipendente con Sesso, bugie e videotape (Palma d'oro a Cannes nel 1989) e la conseguente crisi durata fino ad anni Novanta inoltrati (alzi la mano chi ha apprezzato Delitti e segreti, 1991, Piccolo grande Aaron, 1993, Torbide ossessioni, 1996, e Schizopolis, 1997). Se ora, infatti, Soderbergh è considerato uno dei registi più alla moda di Hollywood, un indipendente che quando vuole se la fila alla grande con l'industria, lo deve in gran parte ad Out of Sight, un noir ironico e sperimentale che strizza l'occhio a Tarantino (come Jackie Brown è tratto da un romanzo di Elmore Leonard) ed è interpretato da un Clooney in piano aplomb da divo, ladro farabutto e affascinante braccato/desiderato  alla burrosa detective Jennifer Lopez.

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Out of Sight segnò la riscoperta di Soderbergh agli occhi della critica (in patria venne giudicato il miglior film dell'anno, qui da noi non proprio…), la consacrazione di Clooney, reduce dai successi di ER ma anche dallo smacco di Batman e Robin (Joel Schumacher, 1997), come eroe dei nostri tempi e, soprattutto, l'inizio della prassi tipicamente soderberghiana di un cinema insieme autoriale e di cassetta, intellettualistico e popolare, realizzato col piglio del primo della classe che ci tiene, però, a far vedere di sapersi adattare all'ultima fila. Gli elementi del suo cinema successivo c'erano già tutti: andirivieni spazio-temporali, costruzione a mosaico delle storie, ironia e spirito post-moderno, distorsioni virtuosistiche delle inquadrature, manipolazioni della luce e del colore, affascinanti riflessioni sul rapporto tra realtà e finzione. 


Seguendo tale linea, Soderbergh ha poi inglobato il meglio del cinema americano degli anni Novanta, per darne una versione "intellettualistica" a palati non troppo fini: da L'inglese (1999) e Full Frontal (2002), i suoi due film più "autoriali", a Erin Brockovich (2000) e Solaris, due opere di "compromesso", passando per l'ambizioso Traffic (2000), che più di ogni altro evidenzia la tensione tra l'indipendenza e l'industria, la macchina-cinema, con i suoi codici e le sue tecniche, le sue fragili verità e le sue enormi bugie, è perlustrata con l'intelligenza snob di un intellettuale inquieto che, però, più che dare vita a geniali intuizioni sembra adattare genialmente idee che vengono da altre menti.


Nel caso di Soderbergh l'esercizio di stile è sempre dietro l'angolo (anzi, è sposato in pieno), la cura perfetta delle immagini cela un eccesso di riflessione che, alla lunga, rivela la superficialità di qualsiasi operazione, sia che si tratti di rilettura dei generi (il noir in Out of Sight e L'inglese, il film di rapina in Ocean's Eleven) o de denuncia del sistema (l'inquinamento dell'industria chimica in Erin Brockovich, la lotta al traffico della droga in Traffic).


Il fatto stesso che in Soderbergh manchi la spontaneità di un soggetto personale o di una riflessione tematico-stilistica coerente (come, ad esempio, succede per Paul Thomas Anderson, lui, sì, ingiustamente accusato di superficialità e virtuosismo) è significativo del vuoto che pervade le sue luccicanti produzioni d'autore. Remake (Ocean's Eleven, Solaris), biografie (Erin Brockovich), riduzioni cinematografiche di serie TV (Traffic) e riflessioni metalinguistiche (Full Frontal) sono i contenitori già esistenti da riempire con costruzioni che vorrebbero, e dovrebbero, dire altro rispetto all'originale, ma che spesso sono solamente le filiazioni di un cinema che si limita a rileggersi e ripensarsi, e non a dire qualcosa di interessante a proposito della realtà o, come nel caso di Solaris, delle dinamiche dei sentimenti umani.


L'autorialità di Soderbergh sta perfettamente dentro il cinema americano di questi ultimi anni; la sua prassi è diventata quasi un nuovo genere, riconoscibile dalla regia anti-classica e dalla fotografia leccata. Non è un caso che essa pervada Confessioni di una mente pericolosa, che naturalmente proviene dalla "Section Eight" e rientra nella strategia, sottolineata da Clooney e Soderbergh, di promuovere "nuovi autori nel panorama del cinema americano". Qui, nel primo film di un "nuovo autore" come Clooney, i segni del cinema "autorial-soderberghiano" ci sono tutti: soggetto non originale (il film è tratto dall'autobiografia di Chuck Berry), interviste ai reali protagonisti della vicenda, gestione disinvolta delle coordinate spazio-temporali, mescolanza di generi e tonalità (commedia, noir, film di spionaggio…), regia ricercata e fotografia leccatissima, particine o comparsate per attori famosi (lo stesso Clooney, Julia Roberts, Rugter Hauer, Brad Pitt, Matt Damon). Ciò che emerge è, naturalmente, l'evidenzia dello stile, l'accumulo di elementi piuttosto che il loro dosaggio. La superficialità si pone come messa in scena dell'evidenza delle cose: mostrare la realtà e lasciarla sullo schermo nella sua luccicante esteriorità. Un cinema caratterizzato dall'eccesso: di argomenti, modalità stilistiche, richiami e rimandi.


Ma se i film di Soderbergh sembrano edifici splendenti costruiti sul vuoto, Confessioni di una mente pericolosa, pur nella sua ricercatezza visiva, contiene gli elementi per dare sostanza al vuoto attorno al quale si costruisce. Certo, come ha sottolineato in più occasioni, Clooney si è fatto influenzare dall'amico regista nel modo di costruire la storia e nella fotografia, ma il senso profondo della sua opera, ovvero la riflessione sulla società dello spettacolo e le degenerazioni del concetto di democrazia americana, è tutto suo; gli proviene dalla sua vicenda personale, dalla vita vissuta che, come mai succede in Soderbergh, è intervenuta per dare autenticità all'opera.


Figlio del produttore e anchorman televisivo Nick Clooney, nipote della cantante Rosemary Clooney e cugino dell'attore Miguel Ferrer, Clooney è cresciuto attorniato da persone direttamente coinvolte nel mondo dello spettacolo. Non è un caso, probabilmente, che egli sia arrivato al mestiere d'attore all'età di 33 anni, dopo aver fallito i tentativi di entrare nel mondo del giornalismo, frequentando la Northern Kentucky University, e in quello del baseball professionista: come se il cedimento alle regole dello show business fosse una sorta di ultima resa. E se nel personaggio di Chuck Berry non c'è nulla di autobiografico, è comunque il suo autentico dramma personale a dare la giustificazione allo stile di Clooney. Prendendo coscienza del sottile legame creatosi tra l'idea di una TV che incarna gli istinti più bassi del pubblico (dal gioco delle coppie, alla voglia di apparire sullo schermo ad ogni costo) e l'idea della democrazia da difendere uccidendo, e uccidendosi, senza pietà, Berry concepisce il suo fallimento individuale. Vissuto solo per apparire, egli ha invece passato una vita nascondendo la propria identità: sconosciuto per i suoi amici e conosciuto fin troppo bene dai collaboratori della Cia. La sua immagine sugli schermi è una figura distorta e mediata, un eccesso che non svela ciò che sta sotto: l'eccesso stilistico della regia di Clooney diventa, dunque, la forma cinematografica più adatta per rendere visivamente la crisi individuale di Chuck Berry.



Peccato, però, che, proprio a causa di una messinscena e di un impianto narrativo troppo complicati, Confessioni di una mente pericolosa non riesca a dire ciò che, sul mondo dello spettacolo e sui lati oscuri della democrazia americana, hanno detto due film come Man on the Moon di Forman e Prova a prendermi di Spielberg, simili al film di Clooney per argomenti, ma più moderati e classici nelle scelte di regia, e per questo assai più chiari e coerenti. Sarà perché Forman e Spielberg registi e autori lo sono da anni e non hanno più bisogno di dirlo, mentre per Clooney, attore e regista al quale la nomea di sex symbol ormai va stretta, essendo all'esordio, è una questione di riconoscibilità, di autorialità da esibire. Ma se per Soderbergh non esiste più una scusa plausibile, per il neo autore Clooney, passato l'esame dell'opera prima, il tempo per correggere il tiro c'è ancora tutto.


 


 


 


LINK


Soderbergh:


www.soderbergh.net


www.fxfilms.cjb.net


Clooney:


www.itallea317.tripod.com


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    Un commento

    • enrico tartagni

      George Clooney è l'unico attore che possa reggere il confronto con Sean Connery nella parte di James Bond! Dategli la parte prima che sia troppo tardi! Cordiali saluti. Enrico Tartagni Ravenna Italy