VENEZIA 69 – "Welcome Home", di Tom Heene (Settimana della critica)
Senza cedere alla retorica dei “silenzi colmi di significato”, sembra che il regista belga riesca quasi a fare a meno del dialogo, non per questo depotenziando il suo ruolo, ma allo stesso tempo senza confinarlo a chiave di lettura esclusiva. Il gioco di specchi che si instaura fra la protagonista e gli uomini in cui viene in contatto, all’interno del quale ognuno di loro allo stesso tempo riflette sé stesso, i propri timori lasciati maturare silentemente dentro sé, la precarietà nascosta dietro le certezze più radicate. Tutto questo sembra spendersi più esaurientemente nel momento in cui, la sola variabile quasi superflua, è appunto quella della parola
In meno ventiquattro ore trascorse da quando ha ufficialmente avuto termine il periodo di riflessione (momento che coincide col suo ritorno a Bruxelles), Lila ha occasione di imbattersi in tre uomini (fra cui il suo ragazzo), incontrati in ambiti e circostanze piuttosto diversi fra loro, che risulteranno in ogni caso componenti omogenee di una nuova prospettiva, di una decisa revisione (per certi versi quasi un’inversione di marcia) delle priorità della giovane protagonista. Tre incontri che avranno il potere di incidere in maniera profonda, effettivamente di plasmare, ciò che prova in quel breve, intenso, forse proprio perché ultimo, intervallo della sua esistenza.
Senza cedere alla retorica dei “silenzi colmi di significato”, sembra che il regista belga riesca quasi a fare a meno del dialogo, non per questo depotenziando il suo ruolo, ma allo stesso tempo senza confinarlo a chiave di lettura esclusiva. Il gioco di specchi che si instaura fra la protagonista e gli uomini in cui viene in contatto, all’interno del quale ognuno di loro allo stesso tempo riflette sé stesso, i propri timori lasciati maturare silentemente dentro sé, la precarietà nascosta dietro le certezze più radicate, e la Lila di quel preciso istante della serata, costantemente alla ricerca di uno stesso equilibrio, mai uguale a sé stessa. Tutto questo sembra spendersi più esaurientemente nel momento in cui, la sola variabile quasi superflua, è appunto quella della parola.