VICOLI CIECHI di Valeria Ariemma

“The Gang movie” e la riflessione sul fascino della violenza e dell’illegalità

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LA SCUOLA DI DOCUMENTARIO DI SENTIERI SELVAGGI

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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L’opinione ‘teologica’ del predestinazionismo proietta la sua ombra sullo stesso ‘criminale’ cinematografico … dilaga sullo schermo della ‘cattiva condotta’ (la propensione al male, la vocazione al delitto, insomma ‘l’attitudine delinquenziale’) …
Allora ‘the gang movie’, tanto negli sviluppi [da I moschettieri di Pig Alley (David Wark Griffith, USA, 1912), a Piccolo Cesare (Mervyn LeRoy, USA, 1930), a I ruggenti anni venti (Raoul Walsh, USA, 1939), a Le vie della città (Byron Haskin, USA, 1948), a Le forze del male (Abraham Polonsky, USA, 1948), a Gangster Story (Arthur Penn, USA, 1967), a Senza un attimo di tregua (John Boorman, USA, 1967), a Il Padrino (Francis Ford Coppola, USA, 1972), a Quei bravi ragazzi (Martin Scorsese, USA, 1990)] quanto nelle varianti e nelle prosecuzioni (dal noir – ancora americano -, al polar – francese -, allo yakuza geki – nipponico -, all’heroic bloodshed – hongkonghese -), pasce oltreché nella riflessione sul fascino della violenza e dell’illegalità pure nell’interrogazione su/nella negazione de il libero arbitrio.
KING OF NEW YORK (Abel Ferrara, USA, 1990)
Aedi dei bassifondi (del disagio criminale urbano), Ferrara e St. John si perdono assieme a Scorsese e Schrader nel cuore malato, nell’anima nera, di New York City … nel ‘marcio’ della Grande Mela.
Tant’è che, nel 1991, commentando gli sviluppi/le tendenze del gang movie metropolitano, Alessandro Camion riconosce Martin Scorsese quale ‘padre putativo’ non solo d’Abel Ferrara ma pure di John Woo. Se puntualizza che, pur annaspando tutt’e tre in certo nichilismo di matrice hemingway-peckinpahiana, per il ‘maestro’ le ossessioni della colpa, del riscatto, della carne e del sangue, sono ‘il letto’ del fiume che ‘(s)travolge’ e per gli allievi sono ‘la sorgente’ (“Per Ferrara e Woo diventano una scelta, un credo, un presupposto che bisogna aver assimilato soltanto per iniziare a comprendere i loro film”) … Woo subito svelerà di non cercare appresso i gangster la filosofia e/o la religione … distanziando il gruppo Ferrara-Scorsese-Peckinpah (inseguito però da Kitano) ed agganciando Tarantino … dirottando la violenza verso una rappresentazione semplicemente spettacolare (non più ‘etica’, ‘critica’, ‘emblematica’ – d’una condizione esistenziale -). Dice Scorsese: “In Tarantino l’eroe è ironico, non esistenziale. Gli capita d’uccidere: ‘Bene. E allora?’”. Dice Kitano: “La differenza tra i miei film e gli altri film di yakuza è il peso d’ogni proiettile di pistola; la violenza nei miei film è una violenza che fa molto male. In un film questo dolore permette di neutralizzare la violenza. Voi invece non fate che film privi di dolore”.

Malgrado ciò, tutti propongono lo stesso mondo asfittico, ‘raggelato’.
Si. Perché a New York si gela (mentre a Los Angeles si brucia … lo conferma il compratore di South Central) … nonostante il piombo, il ferro ed il fuoco; non un cerchio dell’Inferno ma una cornice del Purgatorio: alle anime resta uno spiraglio di speranza (Frank White è un criminale in cerca di redenzione).
Un film sbattuto dalle tempeste filosofiche e morali che sine fine travolgono Ferrara e St. John, graffiato da una descrizione iperrealistica, schiacciato da una rappresentazione della violenza tra il plastico e il coreografico (che attinge ampiamente al lessico wooiano: duelli acrobatici, sfilate in silhouette, bossoli che danzano freneticamente, corpi crivellati e singultenti, fiotti di sangue, fiori vermigli che sbocciano sulle pareti, l’abbraccio mortale – il killer che stringe a sé la vittima e le riempie lo stomaco di piombo -, il mexican stand off – l’inseguito e l’inseguitore che discorrono pacatamente puntandosi/schiacciandosi le pistole al volto -) e da una sua concezione come abbandono (delle/alle cose, nel senso heideggeriano del termine) … eppure saldamente assicurato alla tradizione iconografica del gang movie metropolitano.
Sullo sfondo d’un paesaggio urbano ‘glaciale’ s’intricano i fili dell’abbandono completo (all’istinto primordiale – il gelassenheit ‘distingue’ parecchi personaggi ferrariani … da Driller Killer a Blackout, passando per Occhi di serpente -; al destino ‘rituale’ cinematografico del gangster – attraverso la liturgia del ritorno a casa, della sanguinosa vendetta, dell’ascesa al trono, della rovinosa caduta -; al destino ‘religioso’ dell’uomo che arriva a Dio nel vivere disordinato … che giunge a Dio nella dissolutezza), della perdita irrimediabile (personaggi che si perdono nel delirio/tormento dionisiaco; immagini che si perdono nella memoria del cinema), della domanda mistica [seppure ‘abbozzata’, sussurrata e non ‘urlata’ come ne Il cattivo tenente. Sulle analogie fra le vicende e sulla vis destinante e opponente della città, torna Silvio Danese: “(il criminale e il poliziotto) muoiono entrambi accerchiati. Muoiono entrambi in un’auto, al centro di un’immaginaria croce di supplizio: New York City”].
Al brusco passaggio dal bianco al nero si sostituisce la barbarica invasione del blu; agli effetti chiaroscurali, le contaminazioni bluastre; ad un’immagine contrastata … un’immagine corrosa, imbibita, impregnata d’un blu fulgido, accecante.
La pioggia al neon sfuma i contorni … opacizza i tessuti.
Ovvero: l’universo ferrariano s’alimenta sempre d’una sostanziale ambiguità (difficile separare i buoni dai cattivi) ma sprofonda nelle acque livide e gelide della fotografia bazelliniana.
Il blu defluisce dalle immagini quando l’invasione (di campo) dei cops distilla umore sanguigno. Allo scontro finale le differenze cromatiche s’annullano, le coloriture si sovrappongono … ma lo schermo rimane incrostato d’odio feroce, insanabile … mortale.
Ferrara lo rende visibile, palpabile, per tutto il film, semplicemente lasciando i corpi e gli oggetti (pistole e reggicalze, cocaina, classica e rap) ad elevare un canto d’eros/thanatos: “Non bisogna pensare sempre a cosa sta per succedere”, rammenta lo stesso, “L’interesse dev’essere anche per quello che c’è lì, in quel momento. Molto di quanto sappiamo di White viene dai vestiti che indossa o dalle persone che sono accanto a lui. Quello che puoi fare al cinema è solo filmare oggetti e persone visti come oggetti; il movimento della macchina è sempre volto a tenere vivo il momento più a lungo possibile”.
Forse … Peckinpah e Cassavetes?
L’ambiguo (giocato anche sulla pista del sonoro: l’interrogativo di Schoolly D – “Am I Black Enough For You?” – che riecheggia nel dancing prima e durante la sparatoria, s’interpreta ora nel senso letterale – lo scuro della pelle – ora nel senso metaforico – l’oscuro dell’anima -. Anche i cops studiano alla scuola della violenza; anche la loro missione è figlia di ‘gravi’ colpe – che riconducono alla dimensione del peccato: il sentimento d’odio, il desiderio di vendetta -; vale a dire: nessuno è del tutto buono o del tutto malvagio, l’unico personaggio del tutto positivo è Bishop) ed il contrario (Frank vuole fare del bene facendo del male – ed il progressismo del suo clan s’oppone al reazionarismo di quelli ‘storici’: il mafioso ed il cinese -; tende alla pace a costo della guerra. I due gruppi sembrano speculari: White è il bianco tra criminali afroamericani, Flanigan è il nero tra poliziotti irlandesi) sono i motivi ricorrenti del film.
Le due figure si fondono nel personaggio di White: bellezza/eleganza apollinea e furore dionisiaco, ovvero: lo spirito greco (del pensiero nietzschiano) nella moderna metròpolis… che oscilla tra il pacato e il feroce, lo spleen e l’euphoria, il saggio e lo stolto, il kòsmos ed il chàos; erompe nel ballo, ammira estatico/assorto la City, svuota l’intero caricatore sul corpo già esanime del nemico …

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I valori formali determinano quelli simbolici: … l’ineluttabilità del fato attraverso la claustralità della messinscena.
Già nella prima sequenza Ferrara cerca insistentemente di sollevare lo sguardo (suo/nostro e del personaggio), la traiettoria viene sempre deviata dagli elementi in campo (sbarramenti, graticolati, ecc. …): … la negazione sistematica della salvezza. Sono subito sbarre, dietro cui si scorgono le spalle di Frank. L’uomo esce ma la mdp indugia sulle sbarre; poi il dettaglio d’una grata, che s’apre su un corridoio: Frank emerge dal fondo calpestando un pavimento su cui si proietta l’ombra dei reticolati; quindi altre sbarre, contro cui Frank si staglia, entrando in campo di spalle; la panoramica lungo la facciata della prigione (finestre sbarrate, filo spinato); il passaggio sotto il ponte; la chiusura del cancello dopo l’ingresso della limousine.
Quando Frank volge lo sguardo a Manhattan e dichiara di voler “fare qualcosa di buono”, Ferrara lo colloca di fronte ad un vetro, che non riflette la sua immagine ma quella dei grattacieli: la sua trappola mortale, la sua condanna a morte.
Quando, ferito a morte, esce dalla metropolitana, Ferrara non riesce a seguirlo fino al termine della gradinata, bloccato dall’ennesima inferriata …

Sull’orizzonte simbolico si colloca pure la rappresentazione nella rappresentazione, segno/sogno premonitore: la caduta de L’Imperatore Jones prefigura quella del Re White …

Diversamente da quella di Ray Tempio, la ‘bestemmia’ di Frank White non è la negazione del libero arbitrio ma il sostituirsi a Dio … il delirio d’onnipotenza:
White: “Non ho mai ucciso una persona che non lo meritasse”
Bishop: “Ti sei nominato giudice da solo?”
White: “Beh … è un lavoro duro … ma qualcuno dovrà pur farlo”.
Come il conte Orlok e Kathleen Conklin (N.B.: Dalesio contatta Wong all’interno d’un cinema in cui si proietta Nosferatu), non è responsabile del male che commette: il male è ormai un principio legittimato, un criterio che la società putrida ha istituzionalizzato.
White: […] “Il problema non sono io … tu credi che se io mi mettessi da parte la gente smetterebbe di comprarla? […] “Questo paese spende 100 miliardi di dollari l’anno per uscire di testa … e non per colpa mia”. […] “Il problema non sono io. Io sono soltanto un uomo d’affari”.
CHINA GIRL (Abel Ferrara, USA, 1987)
Film della rappresentazione claustrofila e della concezione claustrofoba … cerca il passaggio angusto (attraverso una New York raggrumata e sotterranea) e fugge il pensiero angusto (il pregiudizio) …
S’allunga, s’attorciglia e scalcia dentro la solcatura del confine territoriale, razziale, culturale …
Scorre tutto lungo Canal Street, stretto fra due argini che sono limiti ‘invalicabili’ geografici e posizioni ‘insuperabili’ etnocentriche.
Un’altra città dal volto cianotico e dalle vene sclerotizzate … che pure offre il fianco ai flagelli dell’intolleranza.
Ferrara taglia il traguardo dell’urban gangster movie dopo le scalate al film western (il concetto del borderline) e al film musicale (il gusto del coreografico) e le calate nell’amore contrastato (West Side Story), il ribellismo giovanile (Gioventù bruciata), i conflitti razziali, il microcosmo ‘originario’ (la Little Italy di Mean Street e la Chinatown de L’anno del Dragone) … sfogando la rabbia e il dolore nel dolly circolare finale. Dopo una corsa ora lungo l’estetizzante, ora lungo l’iperrealistico.
La scena coreografica dilata le proprie pareti sino a contenere, chiudendolo ermeticamente, l’intero film: non solo una violenza stilizzata (espressa per sottrazione – spesso per sineddoche -: la bottiglia frantumata in un canto, le sagome per i vicoli roridi e fumidi, le ombre lungo i muri scrostati e muffidi; o per addizione: il delitto sanguinoso e ‘policromato’ nel rifugio del cinese ‘indisciplinato’), secondo l’estetismo professato da Woo che già Walter Hill aveva accolto ne I guerrieri della notte e respinto da Kitano: “[I film di Woo] sono come dei balletti, una specie di spettacolo. Nella vita reale non esiste che la gente si prenda a calci e pugni a quel modo, facendola sembrare un’azione bella esteticamente: nelle vere risse, vola un pugno ed è sufficiente. Per questo non considero i miei film divertenti. […] Non posso fare i film come John Woo. Non mi appartiene quel tipo di velocità”, … ma una vera e propria sinfonia visiva (una musica dei colori, delle forme, delle linee; cioè cromatica e, soprattutto, plastica) che reclama lo sguardo attraverso il vetro smerigliato d’un barattolo sigillato; che richiama l’attenzione attraverso i depositi calcinosi dell’operare per il limite fisico, concreto.
Sotto le luci al neon (pure nella varianti psichedeliche gialle/rosse/blu già sperimentate in Driller Killer … a formare delle spesse coltri intorno ai personaggi) i corpi si contraggono e si ritraggono, ricacciandosi nei loro spazi/gruppi.
Il saliente narrativo della lotta fra due gruppi si trasforma in quello visivo del contrasto fra due spazi (valga per tutte la scena della discoteca – il ‘vuoto’ dei due ragazzi ed il ‘pieno’ della folla che si ritira/raduna ai lati -, triste anticipazione sul futuro della coppia) e fra due luoghi (i quartieri come ‘petti palpitanti’ … che assurgono a protagonisti relegando gli altri personaggi al ruolo di comparsa; è il caso del vociare italiano che spinge fuori dai margini il dialogo di Alby e Tony).
… Tanto che, dopo i credits, compare la scritta: “Dedicated to the people of Chinatown and Little Italy”.
Dichiarazioni tratte, nell’ordine, da:
Alessandro Camon, Nuove latitudini del gangster film: dal Bronx ad Hong Kong, in “Catalogo del XII Mystfest”, Cattolica, 1991
AA. VV., Dirigé par Martin Scorsese, in “Cahiers du Cinéma”, n. 500, 1996
Vincenzo Buccheri, Takeshi Kitano, Milano, Editrice Il Castoro, 2001
Silvio Danese, Abel Ferrara. L’anarchico e il cattolico, Recco, Le Mani, 1998
Alessandro Camon, Nuove latitudini del gangster film: dal Bronx ad Hong Kong, in “Catalogo del XII Mystfest”, Cattolica, 1991
Vincenzo Buccheri, Takeshi Kitano, Milano, Editrice Il Castoro, 2001.

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