Agora, di Ala Eddine Slim

Un film che sceglie di raccontare la realtà attraverso l’affascinante allegoria di una maledizione, ma con troppi segni da interpretare che cadono nel vuoto. LOCARNO 77. Concorso

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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Nel libro di Murakami L’uccello che girava le viti del mondo il protagonista si trovava di fronte a misteri ed improvvise scomparse che lasciavano dei segni tangibili sulla sua vita. Proprio quello che succede in questo thriller apocalittico tunisino, dove una piccola comunità viene sconvolta dal ritorno di tre persone redivive, colpite da morte violenta, corpi dal collo sgozzato, o resi lividi dall’acqua a causa di un annegamento. L’inizio del film sembra una citazione di Velluto Blu di Lynch con un serpente che striscia tra l’erba e si apre su un prato ed accompagna lo sguardo nel precipitare degli eventi, ed un corvo nero ed un cane blu che interpretano i presagi di una catastrofe imminente. Dettagli, sottolineati dal montaggio e da una precisa messa in scena per ottenere un clima di tensione mentre intorno tutto muore, il cibo diventa marcio, e si forma un macabro orpello a nascondere verità inconfessabili.

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Il film, pieno di allegorie e simbolismi, segue l’evolversi dei fatti  scegliendo di seguire uno dietro l’altro i personaggi della storia: il capo della polizia, l’enigmatico agente segreto della sezione 19, un pavido dottore, un pescatore rovinato dalla moria di pesci o l’imam chiamato a calmare la popolazione dalla paura che predica la calma intanto che i minareti cantano nel vuoto della notte. Le piaghe di biblica memoria sembrano alludere per certi versi alla pandemia, per quel senso di impotenza che accompagna le immagini. Eppure la maledizione richiama colpe terrene, scatenata dalla violenza degli umani e dai delitti impuniti. Il fascino della metafora permette divagazioni ed una pletora infinita di interpretazioni, un quadro che rappresenta al tempo stesso il suo limite per l’estrema volatilità dei temi affrontati, un continuo rimbalzo digressivo nel particolare che complica la comprensione, e lascia quei fili sottili esposti al vento, ridotti a mera esposizione didattica. L’uso di una grammatica cinematografica complessa, attenta ai colori ed un uso appropriato della musica come alleato in una strategia della tensione, non riesce a sciogliere almeno parte gli enigmi sollevati. E da quel velo di mestizia emergono dubbi, fumose ipotesi di complotto, pensieri ibridi e rimandi derivativi lasciati cadere nel nulla. Certo, va premiata l’ambizione di guardare ad un film come qualcosa di irrisolto, una parentesi della realtà traslata sullo schermo e rimasta inafferrabile, senza rinunciare però guidare lo spettatore verso una sintesi parziale, una visione del mondo attraverso una scena resa memorabile soltanto dalla sua condivisione. C’è anche da dire a discolpa che queste scelte sono coerenti con il percorso del regista, che già con Tlamess, l’equivalente tunisino di sortilegio, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes del 2019, era inabissato in questo vortice sensoriale, interessato soprattutto ad una resa percettiva e non ad illusorie e definitive risposte.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.7
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