Alain Delon: il sorriso dell’ignoto samurai

Il nostro approfondimento sulla star francese scomparsa lo scorso 18 agosto. Da ora, è una leggenda da tramandare ai posteri.

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C’è sempre stata una linea d’ombra sulla figura di Alain Delon, qualcosa di oscuro che si celava dietro delle forme perfette, qualcosa di selvaggio che si faceva strada tra i cambi repentini dello sguardo ceruleo. Uscito da una infanzia difficile (i suoi genitori si erano separati e lo avevano affidato a un collegio) e sopravvissuto alla guerra in Indocina dove era partito come volontario e poi congedato con disonore, Alain Delon affermava spesso nelle interviste che il cinema e le donne gli avevano cambiato l’esistenza. Non è stata mai capita questa ambivalenza nella personalità del grande attore francese: rispetto alla mole di capolavori girati e marchiati indelebilmente dalla sua interpretazione, la critica ha sempre stentato a riconoscergli quella statura di grande attore capace di rendere le contraddizioni dell’animo umano. Una candidatura al Golden Globe per Il Gattopardo, un premio César per Notre histoire di Bertrand Blier, per poi ottenere solo riconoscimenti alla carriera, una sorta di excusatio a posteriori per riparare un danno ormai irreversibile. Alain Delon, come tutti i grandi artisti, conteneva moltitudini. Carattere difficile, a volte in contrasto con i registi, spesso con idee politiche discutibili, frequentazioni pericolose, acrobazie in campo amoroso.

Ma sin dai primi film girati alla fine degli anni ’50 (tra tutti L’Amante pura di Pierre Gaspard-Huit in cui si innamorerà di Romy Schneider), risulta evidente la sua capacità di bucare lo schermo per invadere l’immaginario collettivo cinefilo. Il suo primo film da protagonista, Delitto in pieno sole (1960) di René Clément, in cui incarna il bel tenebroso Tom Ripley di Patricia Highsmith, è già un manifesto delle sue capacità attoriali: il talento di Mr. Delon è un sorriso luminoso che nasconde un’anima nera. Lo nota subito Luchino Visconti che lo vorrà protagonista di Rocco e i suoi fratelli (1960) e Il Gattopardo (1963). Nel primo film Alain Delon interpreta Rocco, un ragazzotto lucano ingenuo che si colpevolizza per la sua storia d’amore con Nadia (Annie Girardot), ex fidanzata del fratello Simone (il grande amico Renato Salvatori). Memorabile la scena sul tetto del Duomo di Milano: Rocco interrompe la sua relazione con la disperata Nadia, sul viso di Delon compare una lacrima che rivela il conflitto tra universo interiore e contesto socio-culturale. Nel secondo interpreta Tancredi, nipote del principe di Salina e pronuncia una delle più celebri battute del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Con Michelangelo Antonioni, Alain Delon fa un salto di qualità in termini di lavoro in sottrazione: in L’eclisse (1962) interpreta Piero, un cinico agente di borsa, arido e anaffettivo, che intreccia una instabile relazione con l’altrettanto disillusa Vittoria (Monica Vitti). Molto significativa la scena nella borsa di Roma con la colonna che divide i due personaggi al loro primo incontro e il minuto di silenzio profanato dal sarcasmo pragmatico dell’uomo d’affari.

Con Colpo grosso al casinò (1963) e Il tulipano nero (1964) la sua immagine diventa sempre più popolare e garanzia di successo al botteghino. D’altronde il lato oscuro di Delon e il progressivo sviluppo di una personalità complessa, tesa ad asciugare il linguaggio ed amplificare la meditazione, avviene compiutamente con il capolavoro di Jean-Pierre Melville, Frank Costello faccia d’angelo (1967). Qui Delon incarna perfettamente la filosofia zen, il vuoto che prevale sul pieno, il silenzio che copre ogni sottofondo. Il codice d’onore del samurai prevede l’estremo sacrificio e il dovere di suicidarsi prima di accettare la resa. Quasi contemporaneamente gira il thriller Diabolicamente tua (1967) di Julien Duvivier dove duetta splendidamente con Senta Berger in uno scenario in cui il deficit di memoria nasconde diversi livelli di verità. Altro tassello imprescindibile della sua scalata al successo è La piscina (1969) di Jacques Deray. La piscina è la metafora di una ambivalenza sentimentale: il cielo azzurro e i rami degli alberi sono solo un riflesso nell’acqua, basta un tuffo (a bigger splash per citare il remake di Luca Guadagnino) per fare scomparire l’immagine (e i titoli di testa). Così le splendide vite dei quattro protagonisti nascondono un lato oscuro pronto a riemergere nel buio della notte. Le diagonali degli sguardi sensuali sostituiscono i dialoghi, mentre la piscina diventa una camera di implosione dove confluiscono vita e morte. La speciale alchimia tra Alain Delon e Romy Schneider illumina il film fino all’ultimo fotogramma, in una magica miscela tra finzione e vita reale (i due si erano separati nel 1964 per le continue infedeltà di lui).

Ancora con Deray e con l’amico-nemico Jean Paul Belmondo, Alain Delon sbanca il botteghino francese con Borsalino (1970) che porta all’apice la capacità dei due carismatici attori di sfruttare le diversità caratteriali e di mescolare commedia e dramma. Il cappello diventerà un simbolo così come il nome e cognome del protagonista Roch Siffredi. Ma è ancora Jean- Pierre Melville a fare emergere le tenebre di Delon, il lato diabolico travestito da faccia d’angelo: prima con I senza nome (1970) e successivamente con Notte sulla città (1972). Melville parte da John Ford, John Huston, Howard Hawks, Fritz Lang ma li complica rimescolando la morale dei personaggi in uno spleen baudelairiano: Delon possiede la lucida consapevolezza di giocare una partita a scacchi con la morte e lo fa trasparire ad ogni smorfia del viso, ad ogni rapido accenno dello sguardo.

Il 1972 è l’anno d’oro: Alain Delon reca la sua impronta indelebile anche ne La prima notte di quiete di Valerio Zurlini. Qui interpreta Daniele Dominici professore in crisi identitaria che si innamora della sua allieva Vanina Abati (Sonia Petrova). Il lato sofferente e malinconico sembra prendere il sopravvento amplificato dalla desolazione del paesaggio riminese. Per chi scrive la scena in cui il professor Dominici vede Vanina ballare con il bullo Gerardo (Adalberto Maria Merli), sulla splendida voce di Ornella Vanoni (Domani è un altro giorno), è una altissima espressione di arte cinematografica, con musica perfettamente aderente all’immagine. L’espressione del viso di Delon è una tavolozza di sentimenti contrastanti: vediamo il desiderio, poi l’invidia, la gelosia, di nuovo la passione e poi la disillusione. In pochi minuti il cappotto cammello di Delon sembra un bozzolo di seta in cui rinchiudere ogni speranza per il futuro.

In Mr. Klein (1976) di Joseph Losey la doppia anima di Delon sembra prendere forma come ne L’uomo duplicato di José Saramago. Siamo in piena Seconda Guerra Mondiale e Robert Klein approfitta della persecuzione degli ebrei per speculare come collezionista d’opere d’arte. Ma da qualche parte esiste un suo omonimo, ebreo, che rischia di finire in un campo di concentramento. Delon passa dal cinismo alla cognizione del dolore: questa consapevolezza lo porta ad un sacrificio eroico che lo avvicina tantissimo ai protagonisti Melvilliani. Ritenuta da molti critici una delle più incredibili performance attoriali del tempo, è stata praticamente ignorata ai premi César del 1977 (dove ha vinto Michel Galabru per Il giudice e l’assassino). Nel frattempo con Due contro la città (in cui duetta per l’ultima volta con Jean Gabin) Tony Arzenta, Flic Story e Lo zingaro, Delon mescola il polar francese con schegge del nostro poliziottesco anni ’70. Altro film seminale per la sua popolarità è Zorro (1975) di Duccio Tessari che lo trasforma in icona riconoscibile ad ogni latitudine e longitudine.

Gli anni ’80 vedono Alain Delon nei panni di regista: le sue due prove Per la pelle di un poliziotto (1981) e Braccato (1983) seguono correttamente i binari del noir francese e ripropongono gli stereotipi del detective al centro di un complotto e del malvivente che uscito di prigione si ritrova a fare i conti con le colpe del passato. Nel 1984 oltre al già citato Notre histoire, regala una grande prova in Un amore di Swann di Volker Schlöndorff interpretando la parte del barone Di Charlus, uomo deluso dal suo tempo che porta sulle spalle ricordi dolorosi e lutti mai elaborati. Tra questi, la morte di Romy Schneider nel 1982 lo segnerà per sempre, fino alla fine dei suoi giorni. Intanto le sue partecipazioni cinematografiche vanno diradandosi. Dopo Nouvelle Vague (1990) di Jean-Luc Godard  e Cento e una notte di Agnès Varda (1995) in cui il grande attore sembra giocare con il proprio mito, segue un lungo silenzio in cui Alain Delon si dedica maggiormente al teatro e successivamente alla televisione dove rinnova i fasti del poliziesco francese con le serie Fabio Montale – Delitti sotto il sole (2002) e Frank Riva (2004).

L’ultima apparizione cinematografica è in Asterix alle Olimpiadi (2008) dove saluta il pubblico da Giulio Cesare, imperatore del Cinema. Gli ultimi anni mostrano un Delon depresso, sfiduciato e quasi desideroso di scomparire da una scena che non gli appartiene più. Il sorriso dell’ignoto samurai si è trasformato in una smorfia di risentimento. Ma nonostante tutta la sofferenza, nel 2019 a Cannes, durante la consegna del premio alla carriera, lo sguardo di Delon è rivolto al suo pubblico in un discorso di ringraziamento commovente. Le platee di tutto il mondo gli riconoscono lo stato di monumento del Cinema: poi l’ictus, l’emorragia, la complicata riabilitazione, il linfoma. Delon esce di scena con un grande saluto come nel quadro Two Comedians di Edward Hopper: tutta la vita scorre in chilometri di pellicola contenenti istanti di eternità. Adesso Alain Delon può finalmente approdare alla sua prima notte di quiete. Per lui è una notte senza sogni, per noi spettatori è l’inizio di una leggenda da tramandare ai posteri.

 

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