April, di Dea Kulumbegashvili

Il lungometraggio della regista georgiana gioca sul dualismo esistenziale della sua protagonista ma finisce per esasperare la forma a discapito del contenuto. VENEZIA81. Concorso

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Respiri pesanti e persistenti si rincorrono attravero le lunghe inquadrature di April. Quasi a comporre una sorta di colonna sonora per l’altrimenti silenziosissimo mondo creato dalla georgiana Dea Kulumbegashvili – qui al suo secondo lungometraggio. Una realtà immobile, per certi versi quasi fuori dal tempo. Irreale nelle sue architetture per lo più intonse, immacolate, vergini. Macchiata quasi esclusivamente dal sangue del tragico parto mostrato in incipit. E da quel leggero traballare della macchina da presa, che sembra a più riprese voler rilanciare una costante sensazione di instabilità, di precarietà. Una crepa nell’artificiosa perfezione delle immagini e nella condizione di falsa quiete che adombra il dualismo esistenziale della protagonista Nina.

Esperta ostetrica e ginecologa, ma anche punto di riferimento (illegale) per l’interruzione di gravidanze indesideratenonché per il collaterale sostegno medico che la dottoressa, devota ad ogni sua paziente, non manca di fornire alle giovani donne impaurite che abitano i villaggi della zona – Nina è infatti una donna spezzata a metà. Una donna sola, inadatta ai legami, che cerca “sollievo” nella squallida riproposizione di rapporti orali che intrattiene con sconosciuti incontrati lungo la strada. Una figura sfuggente, divisa; lo strumento di cui la regista si serve per innestare una delicata e decisiva riflessione di natura etico-professionale, dai contorni indubbiamente sfumati; e con cui offre una sorta di contraltare festivaliero alle istanze sul fine vita portate avanti dal The Room Next Door di Almodòvar – oltre che un’integrazione sul tema dell’aborto rispetto a quanto raccontato ne La scelta di Anne di Audrey Diwan (vincitore del Leone d’Oro a Venezia 78).

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Quello della protagonista, però, è innanzitutto un corpo impantanato nel fango. È il simbolo di una versione di Nina rannicchiata, terrorizzata e impotente che riemerge dalle pieghe del passato per tormentarla, per acuire il suo senso di colpa. È la sorella spaventata, l’amante fredda e incostante. È insomma lo specchio di una ambiguità che, sottesa a tutta l’opera, emerge con prepotenza, fin dai minuti iniziali, nelle indecifrabili fattezze di un mostro antropomorfo. Di una creatura in decomposizione (o forse nuovamente ricoperta di fango?) che – inafferrabile nella sua valenza semantica, quanto fisicamente tangibile nella sua inquietante concretezza fantasmatica – si aggira spettrale all’interno degli spazi del film, fino ad arrivare a fondersi con l’immagine di Nina. E rappresenta, probabilmente, la principale intuizione visiva dell’opera.

April è un’opera che, seppur contraddistinta da interessanti ed insistite soggettive, nonché dall'(in)visibile procedimento di interruzione di gravidanza ripreso in piano sequenza con camera fissa, ha però purtroppo il demerito di esasperare la sua forma a discapito del contenuto. Edificando un’algida, impenetrabile (e a tratti perfino estenuante) struttura, che di fatto esaurisce la sua potenza immaginifica ed esclude ogni possibilità di infiltrazione umana.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5
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Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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