Baby Invasion, di Harmony Korine

Dopo Aggro Dr1ft, Korine continua la sedimentazione delle nuove esperienze sacrali del contemporaneo, che ri-narrano il cinema delle origini nell’epoca dell’eterno presente. VENEZIA 81 Fuori Concorso

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Dio ha sempre sei vantaggi di lunghezza

Lo sparatutto in prima persona per la mia babygang di gamer 13enni di paese è stato incontrastatamente Duke Nukem 3D, e quando scoprimmo la lista dei cheats codes da inserire con la tastiera del PC per sbloccare armi infinite, proiettili perenni e barra della salute sempre al massimo, il tempo perso all’interno dell’assurdo e politicamente scorretto mondo di gioco di Duke si espanse a dismisura – ricordo benissimo che la sequenza di azioni da compiere per far diventare il protagonista immortale, si chiamasse God’s Mode.
Tutto questo per dire come Baby Invasion sia stato inequivocabilmente pensato dal suo creatore Harmony Korine come un’esperienza profondamente religiosa, da vivere davvero in God’s Mode, e cioé totalmente disinteressato al destino di quanto accada agli umani sullo schermo: non a caso, la soggettiva del first person shooter passa nel finale ad essere letteralmente la soggettiva di un dio-giocatore, che promulga il game over e si alza nell’alto nei cieli, in uno dei momenti più cruciali dell’intera visione di Baby Invasion.

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Perché Korine, come nel precedente Aggro Dr1ft, guarda innanzitutto all’aspetto esperenziale, e intorno a questo gameplay di un gioco che non esiste costruisce un’impalcatura davvero sacrale, l’altare del post-cinema (desktop-movie, twitchata live con chat annessa, riconoscimento facciale automatico da parte dell’algoritmo…) da fruire però obbligatoriamente in maniera collettiva nel qui e ora di una sala cinematografica, che possa sparare potente e incessante la colonna sonora di Burial e il testo – anch’esso celeste – che la voce da video relaxing recita per tutto il tempo. E’ (nuovo) cinema delle origini? Che ci si trovi di fronte ad una funzione religiosa credo sia stato chiaro a chiunque fosse all’ambitissima proiezione di mezzanotte qui a Venezia, chiusasi con un’ovazione lunghissima a Korine presente in sala che si è messo a ballare sulle note della musica del film mentre il pubblico lo incitava tenendo il tempo. Ovviamente, si tratta della prosecuzione in real life del “presente infinito” enunciato dai cartelli iniziali (“questo non è un film, questo non è un gioco, questa non è la realtà, la realtà non esiste più, esiste solo il presente, un eterno presente”), come se la standing ovation al game designer Korine (e a tutta la sua “nuova” banda EDGLRD) fosse interna alla cornice narrativa imbastita dal film sull’ “incubo senza fine” del gioco sfuggito di mano ai propri creatori e oramai diffuso ovunque senza alcun controllo tra le dimensioni – “this is part of the movie, by the way”, come diceva Ethan Hawke nel messaggio post-credits inserito da Abel Ferrara in Zeroes and Ones.

Dark Passage

Perché, se non espandiamo il discorso a quello che circonda lo schermo di Harmony Korine, o meglio a quello che lo ricopre e lo filtra (Baby Invasion, se ce ne fosse ancora bisogno, ci racconta una nuova volta quanto il cinema contemporaneo si faccia sopra l’immagine, e sempre meno nel momento della nuda ripresa), allora questa “cosa” ci dice molto poco di nuovo, le partite ai videogiochi riempiono già le file di poltrone dei multisala da anni, e i film in soggettiva esistono dai tempi de La fuga di Delmer Daves (1947!): il punto qui è che – soprattutto quando giochi in God’s Mode, come raccontavo prima – all’interno di un open world come pare essere Baby Invasion, puoi perdere un sacco di tempo senza combinare nulla, o partecipare ad alcuna missione. E’ vero che seguiamo il nostro avatar compiere qualche mini-game secondario (il giro in bici) e addirittura affrontare un boss che esce dall’acqua, ma per il grosso del tempo si limita a girare in tondo, ad esplorare le stanze di questa mega-villa da ricconi appena invasa dalla sua squadra di Teletubbies demoniaci: e perdere ore nella totale inazione mentre – in una sorta di tranche come se si fosse quasi fuori dal proprio corpo – si guardano gli altri compiere azioni che ci appaiono come proseguire lontane e senza senso apparente, è una condizione che conoscono fin troppo bene i gamer appassionati di giochi in free roaming, e che ci riconnette in maniera profonda con le attività del nostro cervello quando sogniamo, e vaghiamo senza sosta né meta in situazioni più o meno affollate che si svolgono davanti ai nostri occhi senza che noi si possa intervenire davvero. Per funzionare davvero fino in fondo, Baby Invasion dovrebbe forse mostrarci una partita (uguale e) diversa ad ogni proiezione del film. Come andare a messa.

Guardacaso, quello del sogno è un altro dei concetti ritornanti nel testo che la voce femminile legge durante tutto Baby Invasion – non a caso, i first person shooter si consolidarono definitivamente nell’industria soltanto quando, abbassando il cursore, iniziammo a poter vedere i piedi del nostro personaggio. Come ci disse una volta Laurie Anderson parlando con lei di realtà virtuale, fino a quando non potremo percepire davvero le “periferiche” del nostro corpo, queste fruizioni somiglieranno più facilmente all’esperienza comune ad ogni essere umano di sognare di volare, e di guardare in basso: precisamente quello che fa il personaggio-dio nel finale di Baby Invasion. Ma le intelligenze artificiali sognano pecore non giocanti?

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