Bellaria Film Festival 2024 – Liberare le immagini dal senso nascosto

La nostra guida alle visioni del 42esimo Bellaria Film Festival. Le cime di Asclepio di Filippo Ticozzi, Il Re fanciullo di Alessandra Lancellotti e Ludendo Docet di Luca Ferri

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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La quarantaduesima edizione del Bellaria Film Festival ha tratteggiato le sponde di un cinema indipendente italiano al limite con l’outsiding, un cinema interessato all’abbandono dei centri abitati per sondare la tenuta umana quando si tenta il confronto con la natura e i più intimi riverberi. Abbiamo visto manifestarsi queste storie di fuga e desiderio con Patagonia di Simone Bozzelli, o con Dreaming & Dying di Nelson Yeo. Piccoli sguardi guidati dall’amore inteso nel senso più romantico del termine, che veicolano le storie di piccoli uomini e donne che scoprono loro stessi. Ma a Bellaria si è visto anche molto altro; altre voci che hanno trovato il modo di portare le loro storie. Tra chi ha scelto un approccio osservazionale e chi una messa in scena performativa, ecco la nostra guida alle migliori visioni di questo Bellaria Film Festival.

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Pensando alle modalità riflessive delle o sulle immagini, nel programma del Bellaria erano presenti due prodotti – accorpati anche nella proposta di visione – che hanno saputo servirsi del documentarismo per liberare le immagini e i suoni. Il primo titolo di questo dittico è Le cime di Asclepio di Filippo Ticozzi. Questo, prima prova di documentario d’osservazione (come ha confessato il regista durante la presentazione del film) è un racconto di un museo che viene svuotato dalle statue che lo hanno – apparentemente – sempre abitato. Attraverso il punto macchina rigorosamente fisso (ad eccezione di una singola discesa dall’alto, quasi ad impersonare lo sguardo divino) Ticozzi narra molto di più rispetto a quello che sembra trasparire, perché la delicatezza degli addetti ai lavori nel misurare al millimetro il giusto modo di confezionare i pezzi del museo restituisce bene il peso di una storia passata, che va ben oltre l’umana concezione del tempo. Inoltre la fragilità degli oggetti rende bene la minuzia a cui, sembra di capire allo spettatore, anche l’immagine dovrebbe aderire. I diciassette minuti de Le cime di Asclepio sono momenti preziosi, momenti durante i quali la riflessione sul mezzo e le immagini si libera da qualsiasi fretta, imposizione, obbligo.

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Parlando di liberazione quindi si arriva a Il Re fanciullo, abbagliante opera prima di Alessandra Lancellotti. Questa affascinante prova di coraggio mette in primo piano l’importanza dell’archivio (a riconferma della centralità che questo sta assumendo nel modello costruttivo contemporaneo). Realizzato nel corso di circa dieci anni, il documentario ricostruisce la storia del Castello di Rivara, poi tramutato nel 1983 dall’eclettico artista Franz Paludetto in un museo-residenza per artisti. Il Re fanciullo è un film di struggente delicatezza, che si serve dell’esplorazione del Castello (i rimandi kafkiani sono inevitabili) per innalzare la poesia e l’osservazione romantica di un passato lontano. Poi il film effettua anche una trasformazione, quando ad entrare in scena è proprio Franz; che vediamo nel corso degli anni invecchiare senza mai smettere di raccontare la propria storia, il proprio passato, quindi la propria arte. E nel segmento finale lo vediamo ormai sfinito, dopo aver perso la cosa più preziosa di tutte (come sembra suggerire Lancellotti), la memoria. Il Re fanciullo entra quindi a pieno titolo tra le visioni più intriganti di questo Bellaria Film Festival.

Il premio Gabbiano per la migliore regia è stato assegnato a Ludendo Docet. L’opera di Luca Ferri è un’operazione performativa fatta sul critico cinematografico Domenico Monetti, che vediamo ingozzarsi di vino bianco e ostriche mentre risponde a una serie di domande, fino all’ultima, la più speciale, quella personale e nascosta al pubblico, avvolta in una pagina di giornale: il necrologio di Bergamo. Questa di Ferri è un’opera/performance di svelamento e annullamento. Il regista infatti gioca con il senso dei significanti e della discorsività per accelerare una digressione della parola. Si manifesta quindi un ritorno a un qualcosa di nascosto, mentre assistiamo alle divagazioni che si trasformano in acquiescenza. Le regole espresse di Ludendo Docet delimitano un campo da gioco dentro cui la regia manifesta il desiderio della scomparsa, per affidare quindi l’unico vero atto di sovversione a un unico e incontrastabile controcampo, quello sul pubblico.

In chiusura segnaliamo due visioni che hanno saputo distinguersi per la loro forma filmica unica e encomiabile. La prima è Gli oceani sono i veri continenti, di Tommaso Santambrogio. Già presentato a Venezia 80 come film d’apertura delle Giornate degli Autori, questo film aderisce a una sorta di neorealismo cubano libero e profondamente poetico. È una storia di abbandono e spopolamento, quindi di lontananza e di addii. Santambrogio mette in scena una storia che filma con una dolcezza rara, che ricalca le lezioni di altri grandi autori del contemporaneo (forse primo fra tutti Cuarón, con Roma), ma in grado di non scadere mai nel già visto. La seconda grande visione di questo festival invece è Quell’estate con Irène di Carlo Sironi. Presentato a Berlino 74, questa è un’opera di formazione gentilissima e fedele fino all’ultimo istante a un racconto rohmeriano in tutto e per tutto: un film fatto di profondi respiri e un’atmosfera viva, a tratti tangibile, inesauribile nella sua semplicità.

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