BERGAMO FILM MEETING 25 – Timoka

Davanti ai film in concorso visti sinora al Festival ci si sente come Johan, il bambino de "Il Silenzio" di Bergman, disperso in una cittadina dove nessuno parla o scrive in una lingua comprensibile, e comunicare pare impossibile. Uno sguardo su "I said so little" di L. Englert, "Sieh zu daßß Land gewinnst" di K. Ahlrichs, e "Sve dzaba" di A. Nuic

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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Davanti alla manciata di film in concorso visti sinora in questa venticinquesima edizione del Festival Bergamasco ci si sente come Johan, il bambino protagonista di uno dei film più belli e potenti di Ingmar Bergman, Il Silenzio – il piccolo sgranava gli occhi di fronte alle visioni offertagli dai corridoi e dalle stanze dell'albergo dov'era confinato con madre e zia, tutti e tre bloccati in una surreale cittadina dove nessuno parla o scrive in una lingua comprensibile, e quindi comunicare pare impossibile: siamo a Timoka. Raquel (Jane Eden), la donna protagonista del film d'esordio della londinese trasferitasi in Italia Lydzia Englert, I said so little, si ritrova per esempio dopo la morte dell'amatissimo marito a vivere da sola in un paesino sulle Alpi Apuane, senza conoscere una parola di italiano, e con la voglia di isolarsi da tutto e da tutti – le sarà praticamente impossibile, data la proverbiale 'gentile invadenza' dell'italica gente: da qui una serie di scene a volte dal sapore 'morettiano' (Raquel che vuole farsi una camminata sotto il temporale costretta a rifiutare lo 'strappo' offertole da cinque-sei auto di passaggio sino a sbottare "a me piace la pioggia!!"), perlopiù improvvisate dalla giovane regista, che in queste situazioni ci si è trovata davvero, con l'apporto spontaneo e 'creativo' della popolazione locale. E il suo personaggio protagonista si ritrova intrappolato in mezzo a gente sorridente che le offre continuamente e con insistenza cibo da mangiare, o le fa domande per lei incomprensibili in quella che pensano sia la lingua inglese, quando Raquel vorrebbe soltanto passare il resto della sua vita a letto a piangere e urlare nel cuscino. Lydzia Englert fa uno strano film, aiutata in maniera importante dalla fotografia di Stefano Azario, che si affida a composte inquadrature fisse e morbidi movimenti di camera pesantemente tsaiminglianghiani. Altra storia di incomprensione "all'origine" (geografica) è quella vista in Sieh zu daßß Land gewinnst ("Vedi di guadagnare terreno!"), film molto bello e intelligente ad opera della tedesca Kerstin Ahlrichs, teen-movie atipico in cui non mancano le canzoncine pop e la biondina da mtv, ma la cui protagonista Nike si ritrova all'improvviso a gestire la fattoria del padre infartuato, tra maiali, trattori da guidare, e fragole da raccogliere. E proprio non riescono a capirsi, Nike e Milena, la ragazza bosniaca che fa parte del gruppo di 'lavoratori stagionali' clandestini che Nike ignorava il padre avesse 'a stipendio' – eppure, tra loro due è destinata a nascere un'amicizia.

Quello di Kerstin Ahlrichs è un film parecchio acuto sull'evidente condizione di clandestinità in cui viviamo tutti in questo Paese che dovrebbe essere l'Unione Europea, e sulla impressionante e strisciante metamorfosi dello stato di diritto in un effettivo stato di polizia in cui bisogna badare a tutta una interminabile e mastodontica serie di autorizzazioni, permessi, regole, documenti, burocrazie, per non finire tagliati fuori (dal biglietto per il treno alla richiesta di asilo…) – un film sui confini, allora, in questo (ma anche nell'etica del "salvarne anche uno solo ha la stessa importanza del salvarli tutti") un film profondamente Spielberghiano (The Terminal, Munich), in cui il confine è soprattutto quello della Terra, la terra madre, la Madre Terra, i cui confini andrebbero appunto in maniera sostanziale ridisegnati – vedendo di guadagnare terreno. La Timoka dalla lingua e dalle usanze sconosciute da cui viene Milena, e che Nike imparerà a conoscere soltanto in foto, è la stessa Bosnia-Erzegovina in cui il 60% dei terreni è minato e in cui il 50% della popolazione ha più di sessant'anni, che Goran, il protagonista di Sve Dzaba ("Tutto gratis") di Antonio Nuic, si mette in testa di dover attraversare con un furgoncino per la vendita di birre e liquori offrendo da bere gratis a chiunque, come espiazione per aver buttato la sua vita di fortunato ereditiere che non riesce ad evitare che i suoi più fraterni amici si uccidano l'un l'altro sparandosi a vicenda. Putroppo Nuic si mostra indeciso tra la strada dell'apologo sulla Bosnia contemporanea (i dati di qualche rigo più sopra sono presi dal film), questo Paese alla deriva in cui anche il giovane Goran si sente straniero, e il western contemporaneo con il venditore ambulante forestiero che arriva in un paese sconosciuto (Timoka?), pesta i piedi al signorotto locale, viene minacciato e malmenato, ma ritorna perchè si è deciso a conquistare e portare con sé la donna del Capo, di cui si è innamorato e che il cattivo tratta come fosse una schiava. A questo punto il suo film perde sensibilmente di originalità, e di interesse.

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