Bestiari, erbari, lapidari, di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti

Tre atti per un documentario enciclopedia che racconta il movimento continuo della vita e il tempo che si stratifica nella materia. Uno straordinario film poesia. VENEZIA81. Fuori concorso

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L’uomo rappresenta una frazione irrisoria degli esseri viventi sulla Terra. Il 99,7% della biomassa è costituita da piante. Il resto, lo 0,3%, è composto da animali e insetti. “In questo resto ci siamo anche noi”. Una percentuale irrilevante. Quindi, nel momento in cui si profetizza la scomparsa della vita sul pianeta, a cosa si fa riferimento esattamente? Perché è chiaro che “noi non siamo in grado di eliminare la vita dal pianeta”, come dice quella voce fuoricampo che attraversa il secondo atto di Bestiari, erbari, lapidari. La vita sulla Terra continuerà ben oltre l’uomo.

Forse è da questa consapevolezza che Massimo D’Anolfi e Martina Parenti sembrano voler mettere da parte quella presunzione antropocentrica che da sempre domina la nostra prospettiva del mondo e che, è banale dirlo, informa di sé anche il cinema. Per rendere “omaggio  a quei mondi ‘sconosciuti’ e per certi versi davvero alieni” rappresentati dagli animali, dalle piante e dai minerali, con cui ogni giorno abbiamo a che fare, ma che sfuggono al nostro dominio, nonostante le logiche accentratrici del nostro sguardo e dei nostri comportamenti.

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Bestiari, erbari, lapidari è un documentario “enciclopedia”, come lo definiscono gli autori, ma che, dal titolo, sembra riferirsi a un tempo pre-illuminista, ancor non dominato dal feticcio della razionalità e del pensiero scientifico. A quelle raccolte illustrate medievali, tentativi di tassonomia premoderni in cui l’osservazione diretta e l’esperienza si confondono, inevitabilmente, con le visioni alimentate dall’immaginazione e dalle credenze. Sarà per questo che nei tre cataloghi approntati da D’Anolfi e Parenti, le esigenze della strutturazione di un discorso razionale lasciano il posto a un atteggiamento più eccentrico. Immaginativo, creativo. Non razionale, verrebbe da dire. Nella misura in cui avanza non per affermazioni nette, tesi e dimostrazioni, ma per accostamenti intuitivi, suggestioni nate sul filo delle immagini, corrispondenze che sono scoperte improvvise e che producono slittamenti di senso. Differenti voci, letture e punteggiature, come la favola sui sogni degli animali in Bestiari, o i diari del botanico morto durante la Grande Guerra. Non che non ci sia un discorso coerente, una riflessione che tenti di dare un ordine a ciascuno dei tre atti del film e che poi li colleghi in un unico movimento. Un filo rosso che si può rintracciare, ad esempio, nel leit motiv della guerra, in quest’idea di distruzione che attraversa tutti i capitoli e che esplode definitivamente nella terza parte, con le immagini d’archivio delle città sventrate dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. È il modo in cui l’uomo torna sempre a occupare il suo ruolo fondamentale e oscuro, come controcampo prepotente, con il suo sguardo che cerca di piegare le cose nelle griglie della sua prospettiva, con la violenza tirannica dei suoi atteggiamenti. Ma è solo una traccia, quella più scoperta.

L’impressione è che i documentari di D’Anolfi e Parenti si muovano verso confini sempre più sfumati, impalpabili, dove si fa appello al lavoro dei nostri sguardi, pensieri, sensazioni e si liberano le possibilità molteplici dell’interpretazione. Il cuore del loro cinema, straordinario, sembra puntare a idee astratte, un universo noumenico che sta al di là dell’attenzione, pur costante, verso la materia, gli esseri e le cose. O meglio, si concentra su quel punto di trasformazione in cui il concreto diventa ideale. E così se Spira mirabilis era un grande film sull’immortalità (almeno così ci appare), Bestiari, erbari, lapidari racconta la realizzazione pratica di questo grande sogno/affanno: la sopravvivenza. L’idea stessa di un movimento della vita che prevede salite e cadute, malattie e guarigioni, scomparsa e memoria.  Ma che comunque è in evoluzione continua. I sottotitoli ai tre atti del resto raccontano bene questo movimento: il cinema inventa nuove gabbie, la cura, i fossili del futuro. Tutto è ancor più chiaro se si pensa a Bestiari, erbari, lapidari come un film di “calchi”. Le foglie essiccate nei quaderni dei botanici, le pietre d’inciampo di Gunter Demnig, i fossili del finale, che sembrano davvero racchiudere tutto il senso più profondo del film. Il tempo si stratifica nella materia di cui è fatto il mondo. Proprio come le immagini riprese restano impresse su supporti, ad alimentare la materia del cinema. Ecco, si torna al cinema. Che crea nuove gabbie, certo, ma inventa anche modi di sopravvivenza, reinventa il mondo, la vita. Come la poesia. Ecco cosa fanno Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, come già svelato in Una giornata nell’archivio Piero Bottoni. Film che sono poesie.

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