"State of Play", di Kevin MacDonald
Thriller di invidiabile fascino ed essenzialità sospeso tra il miglior cinema politico sul giornalismo e le migliori serie tv di oggi. Crowe appare un eroe chandleriano con la malinconia e il disincanto di Bogart ma si sente anche la mano del sorprendente MacDonald e gli echi soprattutto di Pakula ma anche di Pollack e Friedkin. Basato sulla miniserie della BBC creata da Paul Abbott
Kevin MacDonald trasforma l’epica di L’ultimo re di Scozia nell’azione pura di State of Play contaminandola con squarci dell’oggettività documentaria del suo ottimo Il nemico del mio nemico. Se si dovesse fare un folle parallelo, il regista nei panni di se stesso che intervista Klaus Barbie (capo della Gestapo, agente dei servizi segreti americani per la lotta al comunismo nel dopoguerra e sostenitore della dittatura boliviana) in Il nemico del mio nemico è come se si fosse reincarnato in Cal McCaffrey mentre cerca di afferrare la molteplice personalità dell’amico Stephen Collins. In questo senso è anche servito degnamente da Russell Crowe, attore oggi che ha l’istinto unico di non riuscire a sbagliare un film. Un eroe “chandleriano”, grasso, con la barba sfatta e i capelli unti, che ha si porta dietro la malinconia e il disincanto di Humphrey Bogart. E pensare che, originariamente, i due protagonisti dovevano essere Brad Pitt ed Edward Norton rispettivamente nei panni di McCaffrey e Collins che probabilmente avrebbero funzionato comunque benissimo.
Al tempo stesso però nel film il ritmo si alimenta con incalzanti controcampi, dove la notizia per il “Washington Globe” appare inafferrabile soprattutto anche per quei frammenti della versione web in cui gli elementi, i dati oggettivi, diventano sempre più straordinariamente sfuggenti, rinnegati, attraverso giochi continui di cambi di prospettiva, di negazione della realtà, di inquietanti ambiguità nascoste dietro i volti e le forme dell’apparenza. Si nasconde sempre qualcosa dietro il “primo sguardo”, la “prima immagine” di State of Play e ciò avviene sempre fino a quella definitiva con la rotativa della tipografia che stampa il giornale. Qualcosa che la ribalta e che fa ripartire tutto da zero, grazie anche all’incalzante scrittura di Matthew Michael Carnahan, Billy Ray e Tony Gilroy (sceneggiatore-regista quest’ultimo di talento che, per fortuna, ha abbandonato quelle vacue raffinatezze formali nella commistione tra thriller e commedia di Duplicity) e che fa avvertire sempre una presenza, un’ombra nascosta nel fuori-campo che sembra spiare McCaffrey, la sua partner e la sede del suo giornale. Nel film di MacDonald sono numerose le zone oscure, sottolineate da quelle luminosità grigiastre della fotografia di Rodrigo Prieto che sembra riciclare quelle di I tre giorni del Condor. Al tempo stesso però State of Play, oltre a Pollack (a intermittenza anche quello di Diritto di cronaca) lascia riemergere anche frammenti del cinema di Pakula, con le tracce spionistiche di Una squillo per l’ispettore Klute e soprattutto con lo smascheramento dello scandalo politico di Tutti gli uomini del Presidente. Forse sarà una curiosità o una coincidenza, ma tra le scene più belle di quel film e di State of Play c’è quella del garage. Lì Robert Redford incontrava “Gola Profonda”. Qui McCaffrey invece è scoperto dall’omicida e rischia la vita. La corsa sembra interrompersi e ricomincia, partita già con un folgorante inizio con la scena dell’omicidio e prosegue fino alla fine. Senza soste e interruzioni. Dove il tempo è davvero volato.
Titolo originale: id.
Regia: Kevin MacDonald
Interpreti: Russell Crowe, Ben Affleck, Rachel McAdams, Helen Mirren, Robin Wright Penn, Jason Bateman, Jeff Daniels
Distribuzione: Universal
Durata: 125’
Origine: Usa, 2009