Blog NET NEUTRALITY – Paul Auster, così lontano così vicino…

Ci lascia a 77 anni l’autore della Trilogia di New York, fondamentale esponente del grande romanzo americano, ineguagliabile abitante della distanza

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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La prima sigaretta, la seconda moglie, il mistero del nonno ucciso, la morte di un figlio per overdose e della nipote di 10 mesi, intossicata dall’eroina. Un uomo indomito, uno scrittore magnifico. Parlare con lui, anche al bar, si immagina fosse come trovarsi dentro una sua storia. Nessuno ti chiama di domenica alle 8 di mattina se non per darti una cattiva notizia che non può aspettare. Il padre muore quella mattina e così inizia anche il romanzo “L’invenzione della solitudine”. Qualche anno dopo esce “Città di vetro”, che parte con una telefonata, un numero sbagliato, tre squilli nel cuore della notte ed una voce all’apparecchio che chiedeva di qualcuno che non era lui. Cercano il detective Paul Auster, un caso di omonimia che lo scrittore accetta fingendo di essere se stesso, o meglio, qualche altro se stesso. Nel 1985 lo scrittore di “mysteries”, alle prese con l’elaborazione di un lutto, viene scambiato per un detective privato con il medesimo nome. Paul Auster decide di assumere l’identità del detective perdendosi in pedinamenti e storie newyorchesi che lo condurranno alla follia. Lui non ha mai commentato la morte del figlio Daniel avuto con la prima moglie, stroncato dalla droga nel 2022, e non si può non pensare a “La notte dell’oracolo” del 2003, dove il protagonista, Trauser, anagramma di Auster, è alle prese con un figlio tossico. È impossibile eludere i cortocircuiti.

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Il rimbalzo è costante tra vita e letteratura, sincronismo poetico di caos, caso, memoria, solitudine, isolamento, introspezione, doppio. La Trilogia di New York (“Città di vetro”, “Fantasmi”, “La stanza chiusa”) è proprio tutto questo, perfettamente condensato, ossessioni che si innestano, a loro volta, su una rivisitazione postmoderna della “detective story” e del noir/hard-boiled che si nutrono dell’inaffidabilità del narratore, della frammentazione narrativa, la decostruzione dell’identità, dell’intertestualità. Aveva un nonno e due nonne. Allora il piccolo Paul chiedeva al papà come mai mancasse un tassello. Il papà, sempre restio nel rispondere, aveva cambiato negli anni tre versioni della storia, fino a scoprire a venti anni che appunto il nonno era stato ucciso dalla moglie e quindi non era precipitato da un’impalcatura, non era morto in una battuta di caccia, non era caduto in guerra. Appunto, le troppe morti di Henry Auster… Quando si verificano eventi terribili di impulso tendiamo a mettere l’evento da parte, dimenticarlo, perché non vogliamo soffrire. Se rimuginiamo su quanto accaduto, la nostra vita si fa più difficile, si crea un’interferenza tra il presente e il futuro, andare avanti diventa arduo. Negare completamente tutto ciò che ferisce, ci pone in una posizione falsata rispetto alla propria vita.

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Questi eventi oscuri vanno affrontati quanto più apertamente possibile, per poi assorbirli, renderli parte integrante di noi stessi, comprendendo infine che la vita ci porrà sempre di fronte a sfide molto serie e le modalità con cui affrontiamo queste sfide ci definisce in quanto esseri umani. Bisogna vivere non in uno stato di cecità, ma piuttosto di connessione assoluta con tutto ciò che ci circonda, con tutto ciò che incontriamo nel nostro cammino, senza mai negare l’esperienza oscura. Paul Auster fino alla sua scomparsa all’età di 77 anni, è stato il nume tutelare di Brooklyn, luogo a cui ha dedicato un racconto fenomenale, “Il Natale di Auggie Wren”, trasposto sul grande schermo da Wayne Wang in Smoke del 1995. “Nel mio lavoro cerco di combinare la vicinanza del quotidiano alla distanza del mito. Perché senza vicinanza non ci si può commuovere, e senza distanza non ci si può meravigliare”. Probabilmente è l’essenza della sua scrittura, immersa inesorabilmente nell’evocazione di una perdita e di un’assenza, il bisogno di ricordare storie altrimenti perdute. Trentaquattro libri, saggi, poesie, racconti, sceneggiature (Smoke, Blue in the Face), regie (Lulu on the Bridge, La vita interiore di Martin Frost), Paul Auster scompare dopo Philip Roth, Toni Morrison, Cormac McCarthy, John Barth ed anche il grande romanzo americano non si sente tanto bene.

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